Appellata la sentenza
favorevole alla Furfaro

L’OTTO MAGGIO l’avvocato Giovan Battista Vignola ha presentato appello contro la sentenza del tribunale di Benevento che ha condannato il consigliere della municipalità Vomero-Arenella Lydia Mastrantuoni per aver diffamato l’ex assessore alla Cultura del comune di Napoli Rachele Furfaro.
All’origine della vicenda un articolo dell’undici giugno 2004 firmato dal giornalista Arnaldo Capezzuto sul quotidiano Napolipiù – La Verità, diretto

da Giorgio Gradogna, intitolato “Rifondazione chiede la testa della Furfaro”, completato da un occhiello (“Accusata di conflitto di interessi: l’assessore comunale alla Cultura è socia di un asilo privato”) e da un sommario (“Rachele Furfaro deve dimettersi, è


Rachele Furfaro e Lydia Mastrantuoni
socia di un asilo privato. Rifondazione comunista chiede la testa dell’assessore alla Cultura del comune di Napoli”). Due i fatti al centro della querelle politica: l’intervento della magistratura, con apposizione di sigilli, per presunti abusi edilizi in una palazzina di via Morghen, al Vomero, fittata da una società che vedeva tra i titolari Rachele Furfaro per l’apertura di una scuola privata (sulla vicenda è tuttora in corso un processo); il contratto di locazione per un edificio da anni destinato a un uso pubblico (ospitava il centro di salute mentale della Asl Napoli 1 e prima ancora gli uffici della circoscrizione Vomero).
Nell’articolo Capezzuto riportava una dichiarazione della Mastrantuoni, ritenuta dal giudice di Benevento “il fulcro del processo”: “la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto … la vicenda dell’apertura della scuola dell’assessore e dei suoi familiari in un edificio privato ma storicamente utilizzato per attività pubbliche come il centro di salute mentale mi fanno immaginare che la Furfaro ha usufruito dei canali istituzionali per ottenere vantaggi personali”.  
Il 30 marzo scorso Vittorio Melito, giudice del tribunale di Benevento, competente perché il quotidiano Napolipiù – La Verità si stampava in una tipografia di Vitulano, ha assolto perché “il fatto non costituisce reato” Capezzuto e Gradogna perché hanno esercitato il diritto di cronaca riportando le dichiarazioni di un esponente politico e ha condannato Lydia Mastrantuoni a pagare 500 euro di multa, pena estinta per l’indulto, e duemila euro di spese processuali all’ avvocato della Furfaro Claudio Botti, mentre per il risarcimento del danno all’ex assessore comunale ha rinviato la quantificazione a un successivo giudizio civile.
Il giudice Melito precisa che “l’atteggiamento fortemente critico della Mastrantuoni, capo gruppo di Rifondazione nel consiglio circoscrizionale del Vomero, non veniva condiviso dal suo partito”. E aggiunge che “la stessa Mastrantuoni nel corso del suo esame dibattimentale ha dichiarato di avere lasciato quel partito la sera stessa in cui esso votò (in consiglio comunale, ndr) contro le dimissioni della Furfaro, aderendo al partito dei Comunisti Italiani


Claudio Botti e Giovanni Battista Vignola

che attualmente ancora rappresenta nella municipalità del Vomero”.
Una scelta che non viene giudicata di coerenza, ma di accanimento nei confronti dell’assessore. Quindi la conclusione durissima del giudice sulla dichiarazione rilasciata a Napolipiù dalla consigliere

circoscrizionale, arricchito da una personale considerazione politica del magistrato. “Non vi sono agganci razionali – scrive Melito nella sentenza – per ravvisare nelle frasi della Mastantuoni una critica meramente politica; esse si manifestano come espressioni di livore e forte prevenzione nei confronti della Furfaro, benché esponente di quella che all’epoca era la coalizione di appartenenza di entrambe (coalizione all’interno della quale sembra proprio che le pulsioni autodistruttive tendessero a essere irresistibili)”.
Nell’appello l'avvocato Vignola dedica tredici pagine a smontare la sentenza di primo grado, definita per alcuni passaggi "addirittura paradossale", e concentra in tre punti le critiche: "l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato vista l’assenza di alcun contenuto diffamatorio nelle dichiarazioni dell’imputata"; "la sussistenza della esimente del diritto di critica politica"; "la contraddittorietà della sentenza nella parte in cui riconosce l’esimente del diritto di cronaca in capo ai giornalisti coimputati, negando, invece, la sussistenza dell’esimente del diritto di critica politica in capo alla Mastrantuoni".