'Lite temeraria', risarciti
quattro giornalisti del Fatto

CON UNA SENTENZA dalle motivazioni limpide e articolate il giudice della prima sezione civile del tribunale di Roma Massimo Crescenzi ha chiuso il giudizio promosso nell’agosto del 2011 dalla ‘Presidenza del consiglio dei ministri Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo’ (il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi e il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla), assistita dall’Avvocatura generale dello Stato, contro la società editrice del Fatto Quotidiano, il direttore responsabile Antonio Padellaro, i cronisti Fabio Amato, Luigi Franco e Daniela Martini, difesi dagli avvocati Caterina Malavenda e Valentino Sirianni.
Nelle sette pagine della sentenza depositata il 10 ottobre il giudice è secco: “la domanda attrice (della presidenza del consiglio, ndr) risulta priva di ogni fondamento e totalmente astratta dai principi costituzionali che disciplinano la materia”. Ne consegue che “rigetta la domanda proposta

dalla ‘Presidenza del consiglio dei ministri ... e condanna l’attrice alla rifusione delle spese del processo, che liquida in favore dei convenuti (l'editore del Fatto e i quattro giornalisti, ndr)


Silvio Berlusconi e Antonio Padellaro

nell’importo complessivo di euro 7.600 per compensi (oltre competenze di legge) e al risarcimento del danno ex articolo 96 del codice di procedura civile, che liquida in complessivi euro 15mila per ciascuno dei convenuti”. Per  essere ancora più chiari chi ha promosso il giudizio viene condannato a pagare, oltre alle spese legali, 75mila euro alle parti citate in giudizio per avere avviato una ‘lite temeraria’.
La sentenza  del giudice Crescenzi riveste una grande importanza perché, in anni in cui i parlamentari non riescono a varare una legge adeguata in materia di diffamazione, tutela i giornali, grandi medi e soprattutto piccoli, attivi sul fronte delle inchieste e delle denunce spesso bersaglio di azioni civili a scopo intimidatorio e apre spazi di risarcimento di fronte a citazioni infondate.  
Vediamo ora nel dettaglio alcuni passaggi salienti delle motivazioni. “È indubbio – scrive il magistrato – che l’impostazione delle argomentazione dell’attrice, con un ragionamento estremamente esile sul piano logico, finisce con l’interpretare le censure rivolte alle modalità di gestione del ministero e chiaramente riferibili ad una persona estranea alla presente causa (l’ex ministro Brambilla), come inerenti a tutto il Dipartimento per il turismo, pervenendo a configurare una generalizzata legittimazione processuale della Presidenza del consiglio dei ministri. In realtà è evidente che la critica svolta dal giornale è indirizzata nei riguardi dell’on. Brambilla, alle sue scelte e al suo operato”. Infatti gli articoli del Fatto Quotidiano ritenuti diffamatori riguardano tutti l’attività del ministro e i collaboratori da lei assunti.
Con il conforto di varie sentenze della Corte di cassazione, il giudice ricorda che “la giurisprudenza di legittimità è chiarissima nel precisare che concretizza l’esimente dell’esercizio del diritto di critica l’interesse pubblico a conoscere non solo il fatto esposto nell’articolo, ma anche l’interpretazione che del fatto viene esposta dal giornalista; e ciò perché è chiaro che si impedisse che i fatti siano oggetto di interpretazione da parte della stampa si abrogherebbe in concreto il diritto di critica politica”. Aggiunge inoltre un riferimento agli “interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale con la sentenza 6-27 novembre 2012 ha affermato che ‘in assenza di un intento diffamatorio, le autorità nazionali non possono estrapolare singole espressioni per valutare il carattere diffamatorio di un articolo’, condannando lo Stato che aveva violato la libertà di espressione del giornalista”. Del resto, osserva “che le


Il Fatto Quotidiano del 9 novembre 2010

censure che si riflettono negli articoli del quotidiano edito dalla società convenuta (il Fatto Quotidiano, ndr) non siano ‘assurde’ lo dimostra il fatto che già a dicembre 2010 esisteva un’inchiesta della Corte dei conti sull’uso spregiudicato della figura del consulente cui faceva ricorso il ministro Brambilla”.
Crescenzi nota anche che “appare veramente incredibile che la Presidenza del consiglio dei ministri possa ritenersi lesa se un giornale d'opposizione prospetti al lettore una sua interpretazione  - che, quand'anche

malevola e pregiudiziale, deve comunque considerarsi legittima -, di una vicenda che appare peraltro caratterizzata da un’oggettiva anomalia: le uniche persone meritevoli di far parte della struttura organizzata da un ministro per rilanciare il turismo erano ex collaboratori dello stesso o avevano legami ed origini politiche contigue”.
Quindi il magistrato conclude: “la manifesta infondatezza della domanda, valutata unitamente alla spropositata richiesta economica (c’è da chiedersi a quali criteri o precedenti giudiziali l’Avvocatura si sia ispirata per calcolare in un milione di euro il danno subìto dal Dipartimento) in una materia ove di sovente si ricorre a richieste economiche esorbitanti solo per intimidire l’avversario politico, legittima la condanna di parte attrice al risarcimento del danno da responsabilità aggravata, ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile, in misura che appare corretto determinare in un ammontare approssimativamente pari al doppio delle spese legali, complessivamente liquidate, per ciascuno dei convenuti”.