Papere e papaveri
di Josef K. Byte
MATTATORI

Se il giornalismo campano fosse una grande vallata, e la si potesse sorvolare in groppa a una gigantesca aquila, ci apparirebbe un paesaggio che il pennello di Hieronymus Bosch saprebbe raccontare meglio di qualsiasi penna: per quel suo mondo popolato, come ha scritto un critico d'arte, "da forme bizzarre e da figure strane e mostruose, che illustrano con acuto e fantasioso senso del colore la tragicommedia umana". Immaginiamo allora il 2003 come un'opera del pittore fiammingo, in cui le figure in primo piano non sono meno bizzarre, strane e mostruose di quelle sullo sfondo; e, così come i personaggi di un quadro non vedono chi li guarda, anche questi mattatori dell'anno scorso sembrano non accorgersi dell'esistenza di lettori e spettatori.
 
GIAPPONESI

Lì, in un angolo, appare un grande edificio: è la sede della Rai di Napoli, e la collocazione defilata corrisponde fedelmente al ruolo ricoperto nell'informazione regionale. Dopo quattordici anni, Giuseppe Blasi ha lasciato, più nolente che volente, la guida del tg della Campania; quattordici anni in cui il culto della non-notizia ha raggiunto livelli di fanatismo pagano, e la ricerca di un presunto equilibrio si è tradotta in fachirismo professionale: seduto immobile su cento aghi (i cento problemi quotidiani di una regione come la Campania), non una smorfia, non un grido, non una goccia di sangue. La vita reale è stata un rumore lontano, di là dai vetri di una sala per convegni.
Il nuovo che avanza ha avuto il volto del successore, Massimo Milone,
uomo di fiducia del direttore della Tgr Angela Buttiglione. Dopo il suo insediamento, a luglio, per qualche settimana parve che le notizie fossero tornate a essere la materia prima del lavoro giornalistico. Ma forse, nonostante quasi
Giuseppe Blasi, Angela Buttiglione e Massimo Milone
un quarto di secolo speso in Rai, Milone aveva sottovalutato la forza e la suggestione di un duplice meccanismo di stritolamento. Da una parte la sostanziale anarchia della redazione, il muro di gomma di inerzie pregresse, la sclerosi di specializzazioni autoattribuite, l'irrimediabile affanno dei vuoti operativi, l'irritato orgoglio di trascorsi professionali esercitati forse su altri pianeti. Dall'altra parte, le dipendenze politiche e istituzionali, coltivate e gradite, per cui un telegiornale non può raccontare la vita, ma deve piuttosto soffocarla: una mano di calce proprio lì dove si allargano le crepe delle contraddizioni, delle polemiche, dei contrasti. Il prodotto non è cambiato. Le ossa dello scheletro, qui e lì, sono state lucidate. Ma l'aria le attraversa, e non trova mai un cuore.
E un fantasma si aggira in quelle stanze: il sindacato. Un comitato di redazione, composto da Carlo De Cesare, Giuseppe Mariconda e Gianni Porcelli, che proclama tre giorni di sciopero contro l'assunzione di Gennaro Sangiuliano, perché è un giornalista che ha già un posto di lavoro a Libero mentre resta da definire la situazione dei precari: ne effettua uno solo (il 25 agosto, giorno in cui Sangiuliano prende servizio), e degli altri due si perde traccia. Un comitato di redazione in cui Mariconda (membro anche del direttivo dell'Assostampa campana), all'inizio dell'anno scorso, ha una divergenza di opinioni con gli altri componenti dell'epoca (De Cesare e Nando Spasiano). Alle loro dimissioni, motivate dalle difficoltà nei rapporti sindacali con la Buttiglione, risponde di adeguarsi ma non capire: con la direzione, dice in un comunicato, va tutto alla grande, ma per non fare la parte - sono parole sue - del "giapponese" irriducibile, lascia anch'egli l'incarico,


Carlo De Cesare, Giuseppe Mariconda e Nando Spasiano

annunciando però la sua ricandidatura. Il giorno dopo l'assemblea di redazione, esaltata da tanta unitarietà, ribadisce la fiducia al cdr, lo "congela" e lo impegna a un incontro con la Buttiglione, che Mariconda chiede di rimandare perché deve
andare in ferie. Pochi mesi dopo, mentre intanto c'è stato l'avvento di Milone, Mariconda si ritrova improvvisamente gli occhi a mandorla, e per contrasti durissimi con la direzione si dimette dal cdr; poi vede che il kimono non gli dona e ritira le dimissioni. E in occasione della conferenza nazionale dei comitati e fiduciari di redazione, indetta dalla Federazione della stampa a Roma lo scorso dicembre, si ritrovano tutti insieme: insieme, ma a Napoli, perché nessuno dei tre sindacalisti ritiene di dover partecipare. Li vedete lì, in un angolo del quadro di Bosch, con gli altri loro colleghi. Sembrano danzare. Ma non si sente la musica.
 
SULLA COSTA

Nel quadro si intravede il mare: non lontano, la sede del Mattino. A una finestra si affaccia il direttore Mario Orfeo, che con espressione a metà fra il costernato e il perplesso guarda una folla curiosa che si è raccolta in strada. Sono tutti quelli cui, nel 2003, il quotidiano di via Chiatamone
ha reso un servigio. Ci sono i quattro pachistani che nelle pagine della cronaca, curate da Claudio Scamardella, vengono venduti per giorni come terroristi in fuga mentre erano a casa di amici. C'è il fantasma di Mohammed Khaira Cisse, l'immigrato della Guinea, debilitato da crisi depressive, ucciso da un carabiniere mentre
Mohammed Khaira Cisse e Enzo Paolillo
era a letto, dopo che la sorella aveva cercato aiuto per farlo ricoverare; e che le cronache del Mattino - ligie alla versione ufficiale dei fatti - avevano trasformato, nelle pagine della Campania guidate da Antonino Pane, in un ossesso che, armato di coltello, si era infilato nel letto di una donna. Ci sono tutti le vittime di titoli sbagliati, di notizie valutate male, di pasticci e sciatterie che abbiamo raccontato quasi in ogni numero di questa rubrica.
Ma in questo quadro, a guardare bene, in ogni gruppo c'è qualcuno che innalza uno stendardo. Sono, diciamo così, i recordmen: quelli che, nell'impazzimento generale, possono vantare piccoli o grandi primati personali. Se al Tgr Campania era stato Mariconda (in una linea di continuità sostanzialmente democristiana della guida della redazione è riuscito, come abbiamo visto, a movimentare lo scenario diventando giapponese a corrente alternata), al Mattino è il responsabile dell'edizione di Salerno, Mariano Ragusa. A giugno quella redazione è riuscita a infilare nel giro di quattro giorni topiche strepitose. Danno per morta una donna coinvolta in un incidente stradale, e quando si accorgono che è viva, nel trafiletto di scuse promettono che pregheranno per lei. Poi l'exploit: fanno un titolone sulla condanna per bancarotta fraudolenta di Enzo Paolillo, "noto imprenditore del settore automobilistico". Ma si trattava di un caso di omonimia: il condannato era un'altra persona. Immaginate la gioia del Paolillo innocente, che per di più era inserzionista del giornale: pubblicità ritirata, strascichi legali


Antonino Pane e Claudio Scamardella

da una parte, sanzioni disciplinari dall'altra. Stavolta il pezzo di scuse per il disastro (in cui l'autore del pezzo, Antonio Manzo, aveva coinvolto anche i figli, bambini all'epoca dei fatti) ha il tono della pubblica autoflagellazione.
A Paolillo e ai lettori spiegano, senza nemmeno troppa convinzione, che è tutta colpa
della "velocità di realizzazione che impongono i tempi di lavoro di un giornale": e alla stessa velocità, presumibilmente, stanno ancora scappando.
 
CORIANDOLI

Avvicinandoci al centro del quadro, si nota una macchia di colore: è la redazione più scapricciatella dell'intera regione, quella che tra le battaglie civili dello scorso anno può vantare lo "sdoganamento", come è stato orgogliosamente detto, dei termini "scopata" (grazie a Januaria Piromallo) e "pompino" (per mano di Anna Paola Merone, Maria
Laura Rodotà e Lina Sotis). È il Corriere del Mezzogiorno, che, diretto da Marco Demarco, è l'equivalente di quei programmi tv che ogni tanto parlano seriosamente di grandi problemi, ma non vedono l'ora di concentrarsi sulle corna
Januaria Piromallo, Maria Laura Rodotà e Lina Sotis
dell'ospite più o meno fasullo e sulla mamma che scopre che il figlio è una donna. Se fosse tutto relegato in un settore con la testatina, che so, "Ci siamo bevuti il cervello", andrebbe anche bene: ma è in prima pagina che trionfa l'equivoco tra ciò che è leggero e ciò che è marziano. Con punte più furbe, come il presunto scandalo delle modelle del catalogo Yamamay, che si dimostrò essere solo pubblicità per l'azienda di Luciano Cimmino, componente della società editoriale del quotidiano. Per il resto, incanta la capacità strepitosa di creare titoli e notizie dal nulla: dai tatuaggi del figlio di Maradona che diventano, in apertura, dibattito sociopolitico, al sindaco di quel paesino offeso dal divo che, enfant du pays alla lontana, non li va a trovare, e ci si inventa il boicottaggio di un'intera comunità al suo ultimo film; dalla morte di attori e cantanti che con Napoli hanno avuto poco o nulla a che fare trasformata in luttuoso "evento" cittadino, all'elezione a governatore della California di Arnold Schwarzenegger che fa brindare i culturisti vip della regione. Ecco, vip: la parola magica. Immaginate quel demi-monde descritto con penna lucida e crudele dagli scrittori francesi dell'Ottocento raccontato invece con ossequio ridanciano; una carrellata di sfaccendati con due, tre o quattro cognomi, dei quali vengono


Luciano Cimmino e Diego Armando Maradona

radiografate abitudini notturne, messe in piega, preferenze alimentari, fantasie sessuali. Autentiche riserve indiane della fatuità dorata, incastonate nel cicaleccio abbronzato dei loro steccati: le feste, pietra di paragone dell'esistenza, con classifiche sui più invitati, i più spassosi, chi sale e chi scende, in un'eterna Capri della vita che
della vita è solo il grammelot. Così intesa, la missione editoriale del giornale - essere da centrodestra la voce critica delle amministrazioni di centrosinistra, magari dando del disertore ai pacifisti - lo trasforma nell'icona stessa dei party e dei brindisi: un coriandolo.
 
LA FONTE

Quasi in primo piano, troviamo rappresentata un'allegorica sorgente: è la redazione di Napoli dell'Ansa, guidata da Mario Zaccaria. Per definizione, infatti, è da lì che devono sgorgare tutte le notizie, per così dire, oggettive: non le inchieste, gli approfondimenti, i commenti, ma i fatti nudi e crudi. Teoricamente, si potrebbe fare un giornale utilizzando solo i lanci delle agenzie di stampa. Per un popolo condannato alla
fantasia, capite che questo ruolo comporta una limitazione insopportabile. E così, l'Ansa Napoli ha messo su un piccolo palcoscenico dove figuranti e comparse possono finalmente esibirsi da protagonisti. Chi non ricorda il
Francesco Bianco, Antonio Sorrentino e Mario Zaccaria
medico tuttologo Antonio Sorrentino, e la valanga dei suoi consigli messi regolarmente in rete? Tutti indimenticabili, ma continuiamo a preferire quello sulle fughe di gas negli appartamenti: prima di entrare in casa, aprite le finestre.
Da incorniciare anche i decaloghi di padre Antonio Rungi, diffusi dal suo profeta Angelo Cerulo, vice di Zaccaria: una serie di dritte su come evitare le sbandate sentimentali estive e gli incidenti stradali, le preghiere per invocare la pioggia durante la siccità, e quelle ad personam per i politici egoisti e per i calciatori ossessionati dalla vittoria a tutti i costi (e il Napoli dev'essere devotissimo di padre Rungi). Fino alle memorabili domeniche pomeriggio di Francesco Bianco, capogruppo di Forza Italia alla Regione, durante le quali sforna via Ansa un commento dopo l'altro: il ragù, anziché la digestione, gli attiva l'opinione.
Ma tra tanti beneficiati, c'è anche una vittima, ed è proprio tra i redattori: Vincenzo Di Vincenzo, che ha consolato con la promozione a redattore capo un atto di indelicatezza nei suoi confronti. A luglio Mariella Cirillo mise in rete una notizia su un concorso ippico a Santa Maria Capua Vetere: nel titolo e nelle prime righe, i nomi dei vincitori


Angelo Cerulo, Mariella Cirillo e Franco Tortora

delle gare e dei premi alla carriera, tra cui i leggendari fratelli D'Inzeo. Un cenno anche a un riconoscimento andato a Carmine Di Vincenzo, driver e padre di Vincenzo. Il giorno dopo, la notizia viene replicata: ma stavolta
Carmine è nel titolo e in apertura del take di Franco Tortora. Pare che Vincenzo, detto Chicco, se la sia presa per questa grave violazione della privacy; altrettanto incavolati gli abbonati, che hanno pagato due volte la stessa notizia, quando ne sarebbe bastata una sola: ovviamente, la seconda.
 
IL MITO

Ma se il quadro che vi abbiamo finora descritto si trasforma da grottesco e inquietante carnevale in capolavoro assoluto, si deve soprattutto a un uomo e a una squadra: l'uomo è Roberto Fuccillo, la squadra quella di Repubblica Napoli. L'episodio risale ad aprile, e ormai nell'ambiente se ne parla coi toni sfumati della fiaba notturna: le chiromanti rabbrividiscono se, nelle linee della mano di un direttore di
giornale, intravedono un caso del genere, e si rifiutano di vaticinarlo; i testimoni, quando saranno vecchi, lo racconteranno accanto al camino coi nipoti sulle ginocchia, e alla loro stupefatta domanda, "nonno, ma tu c'eri davvero?", i vegliardi
Adriana Buffardi, Ciriaco De Mita e Antonio Valiante
risponderanno solo con un'increspatura delle rughe ai lati degli occhi stanchi.
Pubblicare a tutta pagina un'intervista all'assessore regionale alla Sanità Rosalba Tufano, in quota Margherita, senza rendersi conto di stare invece parlando al telefono con l'assessore al Lavoro, la ds Adriana Buffardi, e riuscire a non farsi sfiorare da un dubbio nemmeno quando l'intervistata parla dei risultati raggiunti nel campo delle politiche sociali, o quando dice di aver votato una proposta della Tufano, non è una papera, non è sciatteria, non è distrazione. È la rivincita dell'Uomo sulla routine, l'Io che si ribella alla meccanicità della vita quotidiana; è, in fondo, un grido di libertà, è Enrico Toti che scaglia la stampella della propria individualità contro il nemico della massificazione. Il dialogo tra giornalista e assessore, riletto col senno di poi, fa impallidire quelli della "Cantatrice calva" di Ionesco; come quando Fuccillo dice a quella che crede essere la Tufano che De Mita ne ha chiesto la dimissioni, e la Buffardi replica "e perché mai", e subito dopo l'intervista telefona esterrefatta al vicepresidente della giunta, Antonio Valiante della Margherita, per sapere perché mai De Mita la voglia fuori dalla giunta, garantendo sulla autorevolezza della fonte. Non è magnifico?
Il desk (Marco Sarno e Edoardo Scotti; Francesco Rasulo all'epoca non era in servizio) passa il pezzo senza notare le incongruenze; e non le nota nemmeno il responsabile Luigi Vicinanza, che anzi dedica all'intervista fantasma il suo articolo di fondo. Ma a questo exploit dadaista fa seguito

Antonio Corbo, Rosalba Tufano e Luigi Vicinanza
un atteggiamento meno creativo. Ai lettori non viene presentata nessuna scusa: per loro, l'intervista era e continuerà a essere alla Tufano; che, dopo aver ricevuto un costernato Antonio Corbo, vicario della redazione, accetta impietosita lo scambio di
persona, senza pretendere rettifiche. Conveniamo che era impossibile dare una spiegazione ai lettori; impensabile addurre disguidi tecnici, come quando è stata pubblicata per due giorni di seguito la stessa prima pagina (anche questa, non male). Ma ora che il tempo passa, e ci allontana da quella strepitosa primavera, non ce la sentiamo di essere sarcastici. Per un giorno abbiamo perso un giornalista; ma abbiamo trovato un mito per tutta la vita.