Iurillo 'vincitore',
Gori condannata

IL GIUDICE DELLA sesta sezione civile del tribunale di Napoli Mauro Impresa ha rigettato la richiesta di risarcimento danni contro il giornalista Vincenzo Iurillo, il direttore responsabile Peter Gomez e l’Editoriale il Fatto presentata dalla Gori spa, attraverso l’amministratore delegato Claudio Cosentino, per un articolo (“Sorrento, prescrizione in appello per gli sversamenti del parco marino”) pubblicato dal Fatto Quotidiano on line il 27 dicembre del 2014.
Il Fatto Quotidiano era difeso dagli avvocati Candida Cucco, Paolo De Vincenzo e Caterina Malavenda, mentre per la Gori i legali erano Maria Rosaria De Simone, Alessandro Izzo e Mario Percuoco.
Passiamo ora alle undici pagine della sentenza che sono per certi versi esemplari perché chiariscono con puntualità i confini all’interno dei quali può essere esercitato il diritto di cronaca e il diritto di critica. Si parte

dal passaggio dell’articolo ritenuto diffamatorio dai dirigenti della Gori, definita dal giornalista “un carrozzone pubblico-privato (partecipato al 40% da Acea e per il restante da 76 comuni della provincia napoletana e salernitana raggruppati in Ato) dove comanda la politica che si spartisce incarichi e prebende”.
Il magistrato cita le tre condizioni a cui deve attenersi il giornalista: l’utilità

Vincenzo Iurillo

sociale alla diffusione della notizia; la verità, anche soltanto putativa, dei fatti divulgati; l’esposizione in forme continenti. E aggiunge che “proprio rispetto a quest’ultimo requisito la Cassazione ha chiarito che il linguaggio adoperato può essere anche aspro, polemico, figurato e tradursi in espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite purché si mantenga la proporzione tra l’importanza del fatto e i toni con cui la critica si esprime”.
L’articolo di Iurillo si occupa dell’esito del processo penale sul cattivo funzionamento del depuratore di Torca e dei conseguenti sversamenti delle acque nel parco marino di punta Campanella. E, viene ricordato, sono certamente veri la connotazione pubblica e la rotazione di esponenti politici al vertice della società peraltro anche coinvolti nella grave vicenda giudiziaria degli scarichi a mare che certifica il rilievo pubblico della notizia e quindi il rispetto della ‘pertinenza’. 
Rimane da esaminare la ‘continenza’ di due passaggi: la definizione della Gori come “carrozzone politico-privato” e il riferimento alla “spartizione di incarichi e prebende tra i politici”. “Non c’è dubbio - scrive il magistrato – che l’espressione ‘carrozzone’ reca con sé una connotazione negativa. Tuttavia, come la Cassazione ha più volte ribadito, il carattere diffamatorio di un articolo non va valutato solo sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni ma con riferimento all’intero contesto della comunicazione. Ebbene, nel caso in esame, si può affermare che il carattere intrinsecamente denigratorio dell’espressione ‘carrozzone’, inserita nell’incipit di un periodo di sette righe, risulta modestamente dimensionato se si tiene conto che è inserito

Caterina Malavenda

in un articolo di tre pagine che non si riferisce alla ‘mala gestio’, puntando piuttosto sulla vicenda giudiziaria”.
Il giudice continua affermando che il carattere astrattamente offensivo dell’espressione ‘carrozzone’ è molto attenuato dall’uso diffuso della parola nel gergo delle principali testate giornalistiche. E chiude la questione: “nel vagliare la legittimità dell’impiego della parola non può prescindersi dal

ricordare le inefficienze” conclamate della Gori a cominciare dalle sanzioni inflitte alla società dalla Autorità garante della concorrenza e del mercato “per pratiche commerciali scorrette”.
L’autore della sentenza passa quindi ad esaminare l’espressione ‘prebenda”, che “evoca un compenso conseguito con poca fatica grazie a incarichi straordinari, attività clientelari et similia. Tale allusione allo scambio di favori in seno alla Gori trova però conforto in due dati oggettivamente inconfutabili. Da un lato l’esistenza di un’inchiesta avviata dalla procura di Torre Annunziata denominata ‘Acqua pulita’ avente ad oggetto appalti, consulenze e assunzioni pilotate in seno alla Gori, cui peraltro i media hanno dato una particolare risonanza. Dall’altro già nel 2012 era stato pubblicato il resoconto di una seduta del consiglio regionale relativo allo svolgimento di interrogazioni a risposta immediata aventi ad oggetto le assunzioni poco trasparenti, gli appalti e le consulenze sospette in seno alla Gori”.
Cita infine un terzo elemento: le indagini dell’ufficio Gip di Napoli che segnalava interventi per orientare “il regolare svolgimento della gara d’appalto pubblicata dalla Gori per garantire l’aggiudicazione dell’appalto a ditte riconducibili al clan di Michele Zagaria”.
Conclusione: “alla luce delle considerazioni che precedono la domanda dell’attore (la Gori, ndr) non può essere accolta”. Non si limita però a rigettare la domanda della società ma la condanna anche a pagare le spese di giudizio che “liquida in 7.500 euro oltre rimborso forfettario nella misura del 15 per cento per iva e cpa”.