Corriere di Caserta,
l'editoriale di addio

QUALCOSA DI GRANDE
di Gianluigi Guarino

Avrei evitato volentieri di scrivere questo articolo da festa comandata. Per due motivi: il primo è che non è nelle mie corde, nel mio carattere rivolgermi a chi mi legge sciacquando i panni nella fonte ampiamente saccheggiata della retorica d’ordinanza e del luogo comune a buon mercato, spacciato per compostezza. Secondo, perché il connotato ipocrita del canonico racconto di un congedo sarebbe stato esasperato, fino alla sublimazione della convenienza e dell’ovvio, dalla conformistica finzione che solo oggi si verificasse il momento del distacco dai lettori di questo giornale, da coloro che mi hanno seguito, che ci hanno seguiti con affetto e partecipazione sempre crescenti e, in certi momenti, straripanti, dando un qualche senso al lavoro mio e a quello degli impagabili colleghi che mi hanno affiancato nei cinque anni e più della direzione da me svolta.
Non è andata così e il fatto che si sappia in giro è un elemento che sgombra il campo da ogni approccio fariseo e che mi ha convinto, alla fine, a scrivere questo articolo di congedo. Più di uno sa bene che il mio distacco non è stato tranquillissimo e, soprattutto, è avvenuto non oggi, ma otto, dieci mesi fa. Il tempo che ha separato la mia uscita sostanziale – cioè quella che conta anche nella classificazione postuma dell’identità del giornale – da quella formale, che consuma oggi il suo ultimo atto, è stato colmato dalla mia determinata, seppur sofferta e sofferente volontà, di rispettare fino in fondo, evitando strappi prematuri, il tempo, le passioni purissime, le sofferenze, le ingenue speranze, gli ideali di uomini e donne che in questi anni hanno accettato di seguirmi e di assecondarmi in un percorso accidentato, abbracciando la croce di ritmi severissimi, di durezze spartane, e, perché no, anche dei miei non pochi eccessi. Un rapporto duro, durissimo, non privo di asprezze, ma sempre aperto, vissuto nella fede e per la fede in un principio che io ritengo cardinale: ogni obiettivo va raggiunto con la quantità e la qualità della propria testimonianza professionale, con il coraggio del lavoro, che quando c’è, andrebbe sempre rivendicato, non solo come strumento produttivo da offrire all’impresa editoriale da cui si è pagati a pegno della propria opera, ma anche quale serio, concreto, trasparente strumento di affermazione del diritto e dei diritti.
Di lavoro e di coraggio, che hanno prodotto concreti risultati, in questi anni, al Corriere di Caserta, ne sono stati profusi in dosi industriali.
Quando ho assunto la sua direzione, questo giornale era parte, non solo relativamente agli assetti proprietari, ma anche sotto i profili editoriale e commerciale, di un cosiddetto panino con il quotidiano “La Stampa”, terzo per vendite a livello nazionale dopo Corriere della Sera e La Repubblica. Oggi, il Corriere di Caserta non è più un panino, quella separazione tumultuosa dal giornale di casa Agnelli, che nel 2.003 era apparso come una nera ipoteca sul nostro futuro, si è trasformata in una salutare operazione che ha consentito a questo foglio di introitare un bel po’ di quattrini in più al mese. Oggi, il Corriere di Caserta non è più un panino, ma un piatto unico, capace, grazie al lavoro dei suoi giornalisti, di segnare, da solo e senza un vero fascicolo di notizie nazionali, incrementi di vendite superiori al trenta per cento rispetto a quelli registrati nel 2.001 e nel 2.002 ai tempi del panino con la Stampa. Numeri che sono il segno di un successo, che in certi momenti si è connotato dei tratti del trionfo. E il fatto che il record dei record, le 18mila copie vendute in un solo giorno all’indomani delle elezioni del 2.005, sia stato legato a un evento non ascrivibile alla cronaca nera, e cioè al tradizionale terreno di caccia del Corriere, la dice lunga, molto lunga, sul coraggio mostrato nell’intraprendere il sentiero difficile dello sdoganamento. E la dice lunga sulla capacità, oggettivata dall’evidenza dei numeri, mostrata da chi, tra i redattori, in questi anni, ha avuto il gravoso compito di occuparsi di politica.
Questi i dati, questi i risultati di un bilancio, che dall’angolo visuale delle edicole, è assolutamente positivo. Nessuno ci ha regalato nulla. E se ci è stato dato qualcosa, una possibilità, un palcoscenico, abbiamo restituito il corrispettivo con montagne di interessi. Spesso e…malvolentieri, questa redazione, o meglio, le diverse redazioni di questi anni, hanno dovuto nuotare controcorrente, lottando, indomite, per tenere in vita un gigante, apparso in molte circostanze, mosso da piedi di argilla. Prove che avrebbero spaccato le gambe a molti, ma non a questi ragazzi, a questi giornalisti “razza Piave”, che le loro gambe le hanno mosse sicure col supporto decisivo del cuore. Decisivo è anche risultato l’antidoto degli ideali, di uno soprattutto che per tanto tempo è stato anche l’unico fine mio e dei miei colleghi: voler essere protagonisti di una storia puramente professionale. Una storia scritta tra le difficoltà, in un guado limaccioso di improfessionalità, colmo di veleni inquinanti, di tentazioni ammaliatrici e, spesso, innominabili e nel frastuono assordante, e molto territoriale, molto indigeno, dei richiami delle mille sirene, di quelle che ti invitano spudoratamente ad abbracciare il verbo del “senso pratico”, che da queste parti, spesso, troppo spesso, non è il saggio equilibrio tra istanze, interessi, senso delle cose, ma una sorta di codice genetico che ispira e guida il comportamento, che risucchia implacabilmente gli operatori dell’informazione nel brodo indistinto dei poteri, siano essi politici, economici, lobbistici o di altro genere ancora. Per almeno quattro anni, nel corso della mia direzione, siamo riusciti, sostenuti anche da qualche contingenza favorevole, a resistere. Poi è andata com’è andata.
Resta la gioia di un’esperienza grande. Di vita, prima che professionale. La soddisfazione primordiale di gareggiare e quasi sempre di vincere le battaglie dell’edicola. E poi quella gustosissima, da veri agonisti, consistente nell’aver costretto il più grande quotidiano del Sud, edito da Caltagirone e non da uno qualsiasi, a tener inchiodato il suo prezzo, in provincia di Caserta, al livello di un semi free press anche nel momento in cui La Stampa di Torino aveva lasciato nudo il Corriere di Caserta. E se qualcuno obietta che trattasi di gratificazioni solo morali e platoniche, io rispondo a petto in fuori che è vero, anzi verissimo. E dico anche, chissenefrega: ognuno vive a modo suo. C’è chi si ciba solo di soldi e di pragmatismo e chi insegue un altro tipo di gloria, tutt’altro che vana.
In conclusione, due ringraziamenti, gli unici a persone al di fuori della redazione: al caro Piero Illiano, responsabile della diffusione e protagonista assoluto del successo del Corriere di Caserta per capacità, passione, competenza e per uno spirito di sacrificio sprezzante di ogni pericolo diurno e notturno. Illiano è uno di quegli stoici che, per dirlo alla Bellavista, fanno la doccia e non il bagno. Uno di quelli, cioè, che piace a me. E a Pasquale Clemente, uomo gentile, discreto. Uno di poche parole, con cui ho condiviso, tra la fine del 2.003 e la prima parte del 2.005, un anno e mezzo nel quale io, lui e questa bellissima redazione abbiamo dimostrato tutti insieme qualcosa. Qualcosa di molto grande.