Sentenza in difesa
della stampa libera

È IMPORTANTE LA sentenza del 21 aprile scorso firmata dal giudice della sezione diritti della persona del tribunale di Roma Damiana Colla in materia di diffamazione. Chiarisce infatti che non bisogna fermarsi all’esame della singola parola, anche se aspra e tagliente, ma va giudicato il contesto e verificato se quanto scritto corrisponde al vero.
All’esame del magistrato sei articoli di Massimo Fini pubblicati dal Fatto Quotidiano nel 2018, nei mesi di gennaio, aprile e dicembre,

ritenuti diffamatori da Silvio Berlusconi che, con l’assistenza dell’avvocato Fabio Lepri, ha citato in giudizio la società editrice del giornale, l’autore degli articoli, Marco Travaglio e Peter Gomez, rispettivamente direttori

Silvio Berlusconi e Marco Travaglio

dell’edizione cartacea e del sito on line che ha ripreso il primo dei servizi di Fini, difesi dagli avvocati Caterina Malavenda e Valentino Sirianni. “Quando determinati passaggi di articoli giornalistici – scrive il giudice nelle dodici pagine della sentenzacontengano nel contempo l’esposizione dei fatti e valutazioni critiche o interpretazioni di essi, prima condizione per il legittimo esercizio di tali diritti (di cronaca e di critica, ndr) è data dalla verità e completezza dei fatti stessi”.
Esamina poi il secondo requisito: “è indispensabile che le espressioni e le frasi utilizzate dal giornalista abbiano il carattere della continenza espressiva, senza trascendere in contumelie o in affermazioni ingiuriose o in attacchi gratuitamente offensivi o inutilmente denigratori”.
Indica infine il terzo requisito: “per essere considerata legittima la critica deve possedere l’interesse pubblico non solo a conoscere determinati fatti ma anche quella determinata esposizione dei fatti, cioè quel tipo di interpretazione di essi, ovvero quella opinione dell’autore del brano che, proprio perché opinione personale, non può essere assoggettata a un giudizio di verità né può pretendersi obiettiva”.
Piantati ben saldi tre paletti il magistrato passa a una prima valutazione di merito: “le censure indicate da parte attrice (Berlusconi, ndr) per ogni scritto riguardano essenzialmente il linguaggio e i toni utilizzati dal

Peter Gomez e Caterina Malavenda

giornalista, senza che vi sia nessuna specifica allegazione relativa alla falsità dei fatti da questo riportati e che hanno costituito lo spunto della sua visione profondamente critica della figura dell’attore come uomo politico”.
Si concentra quindi sui

singoli passaggi ritenuti diffamatori che vengono sistematicamente smontati. Facciamo soltanto un esempio relativo alla doglianza di Berlusconi di essere definito “delinquente”. “La domanda – argomenta il magistrato – non è fondata con riferimento al termine “delinquente”, ove con tale espressione letteralmente deve intendersi “colui che delinque” e si faccia riferimento anche solo alla sentenza definitiva per evasione fiscale di cui alla pronuncia della Corte di cassazione; la parola delinquente deriva da delitto e da tale pronuncia risulta in maniera irrevocabile che l’attore ha commesso tale delitto”. 
Non a caso il Fatto nel dare notizia della vittoria giudiziaria, con un servizio di Vincenzo Iurillo, titola: “B. delinquente e malavitoso”: ecco perché si può dire.
Chiudiamo con la sentenza che rigetta le richieste di Berlusconi e lo condanna anche al pagamento di oltre 10mila euro di spese legali.