Free lance condannato
per un titolo non suo

QUESTA STORIA comincia più di venticinque anni fa, il 29 maggio 1998, quando il Corriere di Caserta pubblica un articolo intitolato “Caso Imec, spuntano nuovi indizi per i tre alla sbarra”. L’autore del servizio è un collaboratore del quotidiano, Mimmo Pelagalli, il direttore Antimo Fabozzo, l’editore Maurizio Clemente.
L’avvocato Nicola Ferro e la moglie Anna Virgilio querelano i tre perché si ritengono diffamati dal titolo e dal pezzo. Un anno dopo Il tribunale di Benevento, competente perché il giornale si stampava nella

tipografia sannita di Vitulano, assolve i tre e la sentenza passa in giudicato perché non viene appellata né dalla procura, né dai querelanti. L’avvocato Ferro e la moglie non mollano la presa e presentano un’azione civile chiedendo un risarcimento danni da un miliardo e 300 milioni di lire ma il tribunale di Santa Maria Capua Vetere respinge la

Angelo Spirito

domanda e condanna la coppia al pagamento delle spese legali. Nel 2006 arriviamo alla terza puntata quando la Corte d’appello di Napoli rigetta l’appello e compensa le spese dei due gradi di giudizio perché giudica il titolo forzato. I passaggi successivi sono la Corte di cassazione che rinvia il giudizio in Appello a Napoli, davanti a un collegio diverso dal precedente, che condanna per diffamazione Fabozzo e Pelagalli, mentre Clemente è uscito di scena per il fallimento della sua società.
Il primo marzo scorso la terza sezione civile della Corte di cassazione (presidente Angelo Spirito, relatore Danilo Sestini, consiglieri Chiara Graziosi, Giuseppe Criceti, Anna Moscarini) conferma la condanna. Pelagalli, con l’assistenza dell’avvocato Marina De Siena, ha già presentato il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, allegando una memoria di venti pagine, e chiesto al tribunale di Santa Maria Capua Vetere di sospendere l’esecutività dell’ordinanza.
In attesa delle prossime puntate siamo comunque di fronte a una vicenda surreale con una macchina giudiziaria che può stritolarti anche se non hai fatto niente. Al di là delle numerose forzature operate nei più recenti passaggi giudiziari (ricorsi presentati fuori termine, testimoni decisivi inspiegabilmente non ascoltati, fascicoli giudiziari scomparsi, mancata acquisizione di tabulati telefonici e di fatture di pagamento) il punto centrale è uno: in tutti i gradi di giudizio è emerso con chiarezza e unanimità che il testo dell’articolo non è diffamatorio, mentre ci sono

Maurizio Clemente e Marina De Siena

opinioni diverse sul titolo.
Pelagalli ha redatto l’articolo lavorando all’esterno della redazione e lo ha trasmesso al giornale. Al di là delle norme stabilite dal contratto di lavoro,

nel 1989 non c’erano gli strumenti tecnologici per intervenire dall’esterno sulla impaginazione e sulla titolazione di un servizio.
In pratica ‘fuori’ dalla vicenda l’editore fallito e Fabozzo, oggi redattore capo della Stampa di Torino, che negli ultimi giudizi non si è neanche costituito, c’è da domandarsi quali percorsi hanno seguito i giudici della Suprema corte per scaricare una condanna sul collaboratore, l’unico soggetto certamente innocente, che si vede schiacciato dalla notifica di precetti per 51mila euro per danni, interessi, spese di procedura e spese legali per venticinque anni di giudizi.