Cara Iustitia,
chi di noi ama a un tempo la buona letteratura, il giornalismo e lo sport è immensamente grato a nomi come Gianni Brera, Giovanni Arpino, Gianni Clerici: che nelle loro cronache di calcio, ciclismo, tennis hanno infuso un talento da veri scrittori, confermato nei loro libri. Il ricambio generazionale ci ha portato firme come Gianni Mura e Emanuela Audisio, che perpetuano quella nobile tradizione. Cos’è che caratterizza questa benemerita pattuglia? La capacità, credo, di andare oltre il fatto tecnico per inquadrare l’evento sportivo in un contesto più ampio, ambientale, psicologico, in una parola umano. E soprattutto, l’invenzione di un linguaggio e di uno stile, spesso barocco e immaginifico, ma sempre temperato da una profonda cultura (posso usare questa parolaccia?). Gli epigoni si sono sprecati, e ricordiamo, di un passato non più recente, Giuseppe Pacileo, che sulle pagine del Mattino faceva sfoggio di un brerismo che, personalmente, mi è sempre sembrato meccanico e compiaciuto. Ricordo, nel febbraio del 1979, l’articolo che Gianni Brera scrisse sul Guerin Sportivo in ricordo dell’amico di una vita Nereo Rocco: da quella lettura uscii stordito, come se qualcuno mi avesse trascinato in una lunga avventura, l’avventura del ricordo e del rimpianto, attraverso una prosa che era vino e ragione, lacrima e ceffone, delirio e preghiera.
Due giorni dopo la promozione del Napoli in serie A, il Tgr Campania delle 14 manda in onda un servizio di Gianfranco Coppola sul “dietro le quinte” del successo azzurro; e ho ritrovato brerismi, arpinismi e clericismi nella loro forma moderna, in cui l’acrobazia verbale è senza rete e rende più amaro il tonfo, quel barocco si trasforma in kitsch, e lo sforzo della brillantezza a tutti i costi paga dazi inaspettati.
“Vincere è un infinito che si coniuga attimo dopo attimo”, attacca Coppola, e sono sicuro che se gli contestassi che gli infiniti non si coniugano mi darebbe del pedante e invocherebbe la licenza poetica. Poi, il ritratto, presumo, del calciatore-tipo: “ogni mattina c’è un uomo, spesso molto giovane, che deve mettere da parte problemi, psicosi personali, magari crisi di gelosia, preoccupazioni legate a investimenti sbagliati”. Altro che “uomo solo al comando”: qui l’eroe è un mezzo matto (psicosi personali? ma suvvia: qualche piccola nevrosi passi, ma Coppola sa cos’è una psicosi?), un probabile cornuto con crisi di gelosia, e un cretinetto del quartierino che investe male le prime centinaia di migliaia di euro guadagnati. Che epica, che Odissea dell’Uomo Qualunque.
Tra i protagonisti nell’ombra, “il medico che si divide fra muscoli, tendini e, se servono, pediatri e dentisti”, e dispiace che manchino allergologi e dermatologi. Ma senza questo gruppo vincente “le esistenze dei calciatori sarebbero rotte e scarabocchiate”, il che mi fa immaginare che Coppola non frequenti a fondo l’ambiente. “Il microfilm, fino a Genova (dove si è giocata la partita decisiva, ndr), è tutto questo”: dove “microfilm” si guadagna l’accezione, forse, di “racconto in breve”. Fino all’apoteosi finale, con una domanda a Giubilato: “la dote migliore di questa squadra? Il carattere, lo spirito di gruppo?”, e il calciatore, allargando le braccia, “lo vuoi sapere? Ti dico la verità? Due palle così”. Coppola reagisce con tollerante entusiasmo, e chiosa: “Oggi i giovani parlano così, e una volta tanto, una volta sola, si può perdonare”. D’accordo, non m’importa che “due palle così” sia un’espressione vecchissima e non uno slang degli adolescenti d’oggi, e anche io perdono Giubilato. E giro a Coppola le sue parole: faccia il brerino, ma “una volta tanto, una volta sola”.
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