"Contro i giornalisti non
c'è violenza in Campania"

QUESTA È UNA storia in tre atti: parte mistery, va avanti politica, finisce in dibattito simil tv con le parole che volano leggere e libere.
La storia comincia il 13 ottobre quando il Corriere della sera diffonde, addirittura due giorni prima dell’arrivo in edicola, l’anticipazione di una intervista del Magazine a Vittorio Pisani, capo della squadra mobile di Napoli, firmata da Vittorio Zincone. È un’intervista che potremmo definire

‘stravagante’, con tanta fuffa, alcune dichiarazioni che lasciano perplessi, un messaggio oscuro e un nocciolo chiaro evidenziato dal titolo: “Saviano non doveva avere la scorta”.
Incassata la notizia e accantonata la fuffa, citiamo soltanto una delle


Vittorio Pisani e Roberto Saviano

frasi che destano perplessità. “Pisani, che cosa c’è che non va con Gomorra?”, esordisce Zincone. E il capo della mobile: “Il libro ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori”. Se capiamo bene, il libro ha venduto oltre due milioni di copie in Italia, più di tre milioni nei cinquantuno paesi in cui è stato tradotto e distribuito, ma a Pisani e a qualche altro investigatore non è piaciuto e non è stato neanche di grande aiuto nelle indagini sui clan.
Passiamo al messaggio oscuro. “Saviano, le minacce le ha ricevute”, insiste Zincone. E Pisani: “Bisognerebbe avere il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia”. “E quale sarebbe secondo lei?” “Non lo so. Ma nel rapportarsi con la criminalità organizzata ci sono regole deontologiche, come il rispetto della dignità umana, che vanno
rispettate
”.
Ricapitoliamo: un poliziotto ci dice che ha avuto la delega per verificare l’attendibilità delle minacce a Roberto Saviano e ha espresso parere negativo sull’assegnazione della scorta; aggiunge anche che manca “il coraggio di andare a cercare la giusta causa della minaccia”, “una giusta causa” che sembra conoscere, ma che preferisce non rivelare e si trincera dietro una questione di rispetto dei ruoli o di bon ton.
Accanto ai punti poco chiari o ai passaggi ambigui dell’intervista rimane la


Giuseppe D'Avanzo e Antonio Manganelli

domanda centrale: perché un poliziotto decide di rilasciare un'intervista sulla scorta a Saviano a tre anni e cinque mesi dall’uscita del libro e a oltre tre anni dall’assegnazione della scorta? Pisani non lo spiega e Zincone neanche glielo chiede.
Il 14 ottobre ci pensa

Giuseppe D’Avanzo, firma di punta di Repubblica a chiosare l’intervista, a porre domande, a cercare risposte. Il fondo in prima pagina è una cannonata, intitolata ”Quel poliziotto non può restare”. Dagli uffici della questura di Napoli non arrivano repliche; non si sa se Pisani è soddisfatto, perplesso o preoccupato. Parla invece il numero uno della polizia Antonio Manganelli, che replica al capo della mobile: “Rafforzerò la scorta a Saviano”.
“Bisogna chiedersi – riflette D’Avanzo – che cosa accade e perché. Perché un poliziotto competente come Vittorio Pisani si dà da fare per screditare in pubblico la credibilità dell’autore di Gomorra, perché lo fa in quel modo scaltro tra insinuazioni e notizie monche”. E continua: “Perché, incurante delle decisioni dell’intera catena di comando (questore, prefetto, capo della polizia) e delle convinzioni dei più alti rappresentanti delle istituzioni (ministro, capo dello Stato), l’accorto Pisani demolisce la reputazione di Roberto Saviano?” E avanza una risposta: “Confesso subito un cattivo pensiero in tempi di bastonature per i non conformi. Appena dieci giorni fa, in piazza del Popolo, Saviano ha detto: “Quello che sta accadendo dimostra una vecchia verità e cioè che verità e potere non coincidono mai. La libertà di stampa che vogliamo difendere è la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza

doversi aspettare ritorsioni”.
Ma al giornalista di Repubblica la “ritorsione” appare una spiegazione insufficiente, mentre il nocciolo viene di individuato nella cultura professionale ‘vecchia’ di Pisani che gli fa individuare Saviano come


Rosaria Capacchione, Arnaldo Capezzuto e Luigi Merola

portatore di una pericolosa intransigenza sulle questioni della legalità. “A saperla valutare, – osserva D’Avanzo -  la cultura professionale di Pisani con una capriola all’indietro ci precipita a quegli anni bui quando Stato e potere criminale si danno di gomito. E chi non ci sta, finisce accoppato perché, nelle istruzioni dei governi, Stato e Mafie devono allegramente convivere e assicurarsi un reciproco sostegno. Poco rumore e delitti ridotti al necessario soddisfano lo Stato; libertà di manovra e opportune distrazioni ingrassano il crimine organizzato: tutti vivono felici e contenti”.
La terza parte della storia ha un respiro locale: passiamo dal Magazine e da Repubblica al ‘dibattito’ partenopeo, specialità dello chef del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco e dei suoi cuochi. Il 14 ottobre la notizia che apre la prima pagina è l’anticipazione dell’intervista di Pisani sulla scorta a Saviano, con un catenaccio forte: “L’avvocato Botti: andrebbe tolta anche alla Capacchione”.
L’intera pagina 3 è dedicata a un ampio estratto dell’intervista al capo della mobile che viene completato da una colonna riservata alle parole di Botti, ex presidente della camera penale di Napoli. L’avvocato punta diritto al nodo: “Fosse per me, mi interrogherei in merito alla scorta a Rosaria Capacchione. In Campania, come in altre regioni del Sud, non ci sono esperienze di violenza diretta nei confronti di giornalisti e scrittori”. L’input è 'basta con le scorte ai giornalisti' e Botti sembra allinearsi, ma non porta neanche un dato o una notizia a conforto della sua affermazione; ci dice soltanto che “in Campania


Francesco Durante, Salvatore Giuliano, Giuseppe Impastato (*)

non ci sono esperienze di violenza diretta della criminalità nei confronti dei giornalisti”.
Stefano Piedimonte, il giovane cronista che raccoglie le dichiarazioni di Botti, ha ritenuto sconveniente ricordargli l’omicidio di Giancarlo Siani o la condanna nel

luglio scorso dei genitori di Salvatore Giuliano per minacce di morte nei confronti di don Luigi Merola e del giornalista Arnaldo Capezzuto. Ed è davvero singolare e imbarazzante che sulle parole di Botti nessuno del Cormezz sia intervenuto: né chi passa la pagina (di solito, Roberto Russo), né il redattore capo Francesco Durante e neanche il direttore.
Una ultima notazione. Sui tanti giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia c’è una vasta documentazione; per i distratti e per i poco informati vale la pena ricordare qualche  nome: Beppe Alfano, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Giuseppe Impastato, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato.

(*) Da www.inchiostro.unipv.it