In appello Amurri
sconfigge Mannino

AL FATTO QUOTIDIANO, il giornale diretto da Marco Travaglio, hanno festeggiato i primi dieci anni con una vittoria in tribunale in materia di diffamazione sulla presunta ‘trattativa’ Stato-mafia.
Infatti nel giudizio davanti alla Corte d’appello di Roma Sandra Amurri del Fatto è riuscita a ribaltare la sentenza di primo grado e a far condannare l’ex parlamentare dc Calogero Mannino al risarcimento per diffamazione di “30mila euro più gli interessi legali dalla domanda al saldo” e al pagamento di oltre 14mila euro per le spese legali del primo e del secondo grado.
Ricapitoliamo la vicenda che risale al 10 marzo del 2012 quando la cronista pubblica sul Fatto un servizio nel quale riporta brani di una conversazione ascoltata per caso un paio di mesi prima a Roma, al bar

Giolitti, tra Mannino e l’esponente scudocrociato Giuseppe Gargani.
Al centro del colloquio le indagini sulla 'trattativa' Stato-mafia con Mannino indagato che chiede a Gargani di avvisare subito Ciriaco De Mita nel caso dovesse essere ascoltato dai giudici di Palermo “di dare tutti la stessa versione. Deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono”.
All’articolo del Fatto il parlamentare

Giuseppe Gargani

siciliano replica in maniera anomala: non querela o cita per danni il quotidiano e la cronista ma rilascia una serie di interviste e dichiarazioni ai giornali, alle agenzie e alle tv nelle quali bolla Sandra Amurri come “una mitomane”, “una spia”, “un agente volontario in servizio (nella Germania comunista sarebbe stato della Stasi o del Kgb nell’Urss)”.
La cronista risponde citando in giudizio Mannino a cui chiede mezzo milione di danni. La causa è affidata al giudice Donatella Galterio della prima sezione civile del tribunale di Roma che liquida la vicenda con tre pagine scarse di sentenza e argomentazioni che appaiono singolari. Ne citiamo una: “l’aver additato la giornalista all’indomani della pubblicazione dell’articolo de quo come ‘una mitomane’ o come ‘un agente volontario in servizio ’definendola ‘una spia’ costituisce una replica alquanto pertinente rispetto agli addebiti mossigli dalla Amurri sulla base di un colloquio da costei abusivamente origliato e perde qualsivoglia valenza diffamatoria essendo volto a stigmatizzare l’indebita interferenza nei suoi rapporti personali e avuto riguardo al luogo e alle circostanze in cui la conversazione era stata captata, di natura strettamente privata non essendo la Amurri tra gli interlocutori coinvolti nella suddetta conversazione”. Nell’aprile del 2015 il magistrato rigetta la domanda di risarcimento e, “tenuto conto della mancanza di fase istruttoria e della tardiva costituzione” di Mannino, infligge alla giornalista una condanna abnorme: “15mila euro a titolo di

Ciriaco De Mita

compensi legali, oltre accessori come per legge”.
Inevitabile l’appello presentato da Sandra Amurri con l’assistenza degli avvocati Martino Umberto Chiocci e Alessandra Flaminii Minuto, mentre il legale che difende Mannino è Anna Sistopaoli. Il fascicolo viene assegnato alla prima sezione della corte d’appello di Roma, presidente Gianna Maria Zannella, consiglieri Biagio Roberto
Cimini e Rosa Maria Dell’Erba che è la relatrice.
I magistrati della corte d’appello innanzitutto esprimono giudizi molto severi sulla sentenza della Galterio. “Il giudice di primo grado - scrivonoaveva legittimato un principio di autotutela inammissibile nel nostro ordinamento, sostenendo che le critiche del convenuto (Mannino, ndr) erano legittime poiché egli stesso si era sentito diffamato dalle accuse mosse dall’attrice (Amurri, ndr). Tuttavia da un lato l’articolo non conteneva nessuna accusa e dall’altro Mannino avrebbe potuto esercitare una critica attenendosi ai limiti del diritto oppure agire nelle opportune sedi legali per chiedere tutela”.
Tesi ribadite dalla corte anche nel capoverso successivo quando ricordano che la Galterio “aveva legittimato la critica dell’onorevole Mannino sulla base del semplice ragionamento della captazione volontaria o involontaria della conversazione privata, a prescindere dal contenuto delle offese mosse e senza considerare che l’appellante (Amurri, ndr) aveva dato rilievo alla conversazione rimettendola alla valutazione delle competenti autorità giudiziarie e, successivamente, all’informazione pubblica”.
I giudici passano poi a smontare quanto sostenuto dall’onorevole dc: “la conversazione non è stata né origliata né abusivamente captata poiché è avvenuta in un luogo pubblico, aperto, in cui l’attrice era arrivata per prima e si era seduta a un tavolino e aveva ordinato un cappuccino

poiché stava aspettando l’onorevole Aldo Di Biagio e quindi non era affatto tenuta, come sostenuto dal convenuto (Mannino, ndr), ad allontanarsi per non sentire la conversazione, che la stessa ha quindi percepito del tutto casualmente ma distintamente a causa della vicinanza del Mannino che, noncurante della presenza di persone, evidentemente parlava a voce alta”. Passano quindi ad esaminare le parole

Martino Umberto Chiocci

‘diffamatorie’ usate dall’onorevole: “nel caso in esame le espressioni offensive non sono assistite dal presupposto della veridicità né putativa né limitatamente al suo nucleo più essenziale, poiché Mannino, pur non avendo negato che il colloquio sia effettivamente avvenuto, non ne ha mai fornito una ricostruzione alternativa a quella contenuta nell’articolo della Amurri, limitandosi ad accusarla di ‘mitomania’ e di ‘spionaggio’.… Ne consegue che le espressioni diffuse dall’appellato (Mannino, ndr), non essendo assistite dal presupposto della veridicità né potendo costituire legittima reazione rispetto all’articolo dell’attrice, costituiscono un gratuito attacco alla persona della Amurri e alla sua professionalità di giornalista”. E quindi “dovrà essere accolta la domanda di risarcimento del danno” in favore della giornalista.