Ribaltata la sentenza
sul “giuda di Falcone”

ARRIVA DA PERUGIA una sentenza che mette forse la parola fine alla vexata quaestio del “giuda di Falcone”. Queste sono le parole usate da Paolo Borsellino il 25 giugno del 1992 a Palermo durante una manifestazione promossa dalla rivista Micromega, un mese dopo la strage di Capaci (e poco più di venti giorni prima dell’attentato di via D’Amelio che costò la vita a Borsellino e alla sua scorta), per segnalare chi nel gennaio del 1988 aveva bruciato al Consiglio superiore della

magistratura la candidatura di Giovanni Falcone alla guida dell’Ufficio istruzione di Palermo. Una bocciatura che dimostrava plasticamente

Paola De Lisio, Claudia Matteini e Simone Salcerini

l’isolamento di Falcone anche tra i magistrati. Veniamo alla sentenza della Corte d’appello civile di Perugia. Il 22 maggio del 2012 sul Fatto Quotidiano il giornalista Rino Giacalone pubblica un articolo intitolato “Quando il Csm bocciò Falcone: il verbale”, indicando nell’allora componente togato del Csm Vincenzo Geraci il magistrato cui si sarebbe riferito Borsellino parlando del “giuda di Falcone”. Assistito dai legali Carlo Orlando, Claudio Di Pietropaolo e Laura Di Pietropaolo Laurenti, Geraci ha citato in giudizio per diffamazione il cronista e la società editrice del Fatto, difesi dagli avvocati Martino Umberto Chiocci, Alessandra Flamminii Minuto e Gabriele Minelli, e il 10 marzo del 2022 la giudice Gaia Muscato del tribunale civile di Perugia li ha condannati a pagare a Geraci oltre 52mila euro di danni e settemila euro di spese legali. 
Una sentenza che la Corte d’appello (presidente Claudia Matteini, consiglieri Simone Salcerini e la relatrice Paola De Lisio) ha meticolosamente smontato, utilizzando anche parole dure. Innanzitutto il giudice di primo grado “sarebbe incorso – scrive la consigliera estensore – in un vizio logico” perché sostiene che Borsellino non si era “rivolto a Geraci con l’appellativo di giuda. Invece il fatto del quale doveva accertarsi la verità quale condizione del diritto di cronaca era esclusivamente se fosse o meno vero il fatto, oggettivamente diverso e storicamente vero, che (Borsellino, ndr) a Geraci intendesse riferirsi parlando di qualche giuda che aveva tradito Falcone in quella

Martino Umberto Chiocci e Rino Giacalone

votazione”.
Attingendo a una sentenza della Corte d’appello di Roma, sempre sulla stessa questione, con imputato Giuseppe D’Avanzo, vengono citati vari momenti in cui era scattata l’identificazione di “giuda” con Geraci.

In un articolo del 27 giugno 1992 sul Corriere della Sera il cronista “che aveva correttamente riportato le parole di Borsellino (al convegno di Micromega, ndr) aggiunse:“Chi è il giuda? La gente in piedi applaude e lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”.
Lo stesso Geraci, nella lettera aperta pubblicata dal Corriere della Sera due giorni dopo, “ammise che il tenore dell’intervento di Borsellino, dato l’accostamento del tradimento al voto da lui espresso in seno al Csm sulla candidatura di Falcone, era tale da rendere ‘inevitabile’ che egli fosse identificato nel traditore”.
Il terzo passaggio riguarda il magistrato Giuseppe Ayala che “nel libro ‘La guerra dei giusti’, edito nel maggio 1993 a pagina 66, ricordò che Geraci “si era beccato l’epiteto di giuda lanciato da Borsellino dieci giorni prima di essere massacrato in via D’Amelio”, ripetendo a pagina 191: “Geraci, l’uomo poi indicato da Paolo Borsellino come giuda”.
La quarta voce è quella del giornalista palermitano Umberto Lucentini che “nel libro ‘Il valore di una vita’, edito nel gennaio 1994, a pagina 132 indicava Geraci come “l’uomo che Borsellino, a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio, ricorderà come il giuda che ha tradito Falcone”.

A questo punto della sentenza la giudice estensore piazza il colpo definitivo:nel presente procedimento sono stati acquisiti elementi probatori che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, consentono di affermare che vi è certezza di una successiva identificazione compiuta da Paolo Borsellino, il quale ebbe a chiarire pubblicamente a chi intendeva riferirsi con l’appellativo di giuda”.

Luciano Costantini
Appare opportuno chiarirecontinua Paola De Lisio che l’unica testimonianza assunta nel presente procedimento è stata quella di Luciano Costantini, magistrato che ha esercitato le funzioni di sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Marsala ed è stato collega (e amico, ndr) di Paolo Borsellino”.
Costantini è stato ascoltato come testimone nell’udienza del 26 febbraio del 2020 e ha dichiarato: “Ricordo di avere partecipato a un incontro di saluto organizzato in occasione del trasferimento del dr. Borsellino dalla procura di Marsala alla procura di Palermo. Finito l’incontro pubblico, io e altri colleghi seguimmo Borsellino nella sua stanza” e ci raccontò che “il giorno della sua visita alla camera ardente di Giovanni Falcone si era sentito tirare la toga. Ricordo che fece il gesto, lo ricordo bene. Borsellino proseguì dicendo che a tirargli la toga era stato Antonino Meli, che lui si era girato e lo aveva visto; Borsellino si riferì allora a Meli utilizzando il termine ‘mischino’ che è una forma compassionevole, e poi aggiunse che lo aveva perdonato, ma precisò che invece non aveva perdonato Vincenzo Geraci e che per questo si era riferito a lui, durante l’incontro alla biblioteca di Palermo, chiamandolo giuda, e che lo aveva fatto con tutto il cuore”. Una testimonianza,
Giuseppe Ayala e Antonino Meli

secondo i giudici di Perugia,all’evidenza assolutamente precisa e dettagliata”.
Dopo avere demolito le ultime parti della sentenza di primo grado, la conclusione è: “da tanto consegue, per le ragioni che si sono sinora esposte, che la

frase: “Vincenzo Geraci (il giuda nelle parole di Paolo Borsellino”) riporta una notizia vera”.
Per questi motivi il 13 maggio scorso la Corte d’appello ha rigettato la domanda di risarcimento danni proposta da Geraci e ha condannato lo stesso al pagamento delle spese legali di primo e secondo grado liquidate in 15.626 euro complessivi, più iva e cap come per legge, oltre il rimborso per spese generali del 15 per cento.