Che direbbe Siani
dei suoi 'cantori'?

A VOLTE GLI addetti stampa, gli uomini comunicazione, i consigliori dei politici dovrebbero riflettere prima di lanciare i loro boss in dichiarazioni avventate e controproducenti. Di sicuro non hanno meditato granché gli uomini dello staff del presidente della Provincia di Napoli: il 23 settembre Luigi Cesaro poteva rimanere in silenzio; invece i suoi ghost writer lo hanno

mandato allo sbaraglio con un comunicato per ricordare l’anniversario dell’assassinio di Giancarlo Siani. Ma che faceva Cesaro nel 1985, quando i clan della camorra decidevano e eseguivano l’omicidio del cronista del Mattino? Era imputato, con altre


Luigi Cesaro e Giancarlo Siani

cinquantadue persone, con l’accusa di favoreggiamento pluriaggravato nei confonti dei vertici della Nuova camorra organizzata. E il 2 agosto, un mese e mezzo prima dell’esecuzione del giornalista, viene depositata la sentenza dalla prima sezione penale del tribunale di Napoli, presieduta da Adriano D’Ottavio con a latere Giovanni Giacalone e la relatrice Teresa Casoria, che lo condanna a cinque anni di reclusione.
Delle 157 pagine della sentenza, il giudice ne riserva tre a Cesaro che ammette i fatti contestati e cerca soltanto, senza successo, di ridurne l’impatto. “Rende questo imputato – scrive Teresa Casoria – superflua confessione del favoreggiamento che viene ritenuto a suo carico e che, annaspando, pretende di giustificare con l’impossibilità di sottrarsi alle pressioni di camorristi i quali se ne sarebbero serviti quasi a sua insaputa, come intermediario con i vertici dell’organizzazione e come sostenitore nei momenti di difficoltà del gruppo. Ma un sereno e serio esame delle risultanze processuali porta chiaramente a intendere che l’aiuto fu costante nel tempo, e più che spontaneo”.
Dalle prime righe scaturiscono due considerazioni: con “se ne sarebbero serviti quasi a sua insaputa” Cesaro batte, con venticinque anni di anticipo, la linea Scajola; quando leggiamo “annaspando”, troviamo il politico di oggi, che parla di “tic tac” per dire “diktat” e chiama “Melchiorre” l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne.
Ma citiamo ancora un passo della sentenza: “fare un elenco di nomi di camorristi con i quali il Cesaro ha trattato e contrattato di buona


Raffaele e Rosetta Cutolo

voglia … è cosa lunga e ci si riporta ai nomi che compaiono nell’ordinanza di rinvio a giudizio (tra gli altri, Rosetta Cutolo e Pasquale Scotti, ndr), facendo presente che in un solo giorno favorì i contatti di ben trenta di loro, mettendo a

disposizione la casa e la sua persona, come dichiara il malamente contrastato Pasquale D’Amico, e che le prestazioni anche patrimoniali, in favore dei singoli affiliati, quale manifestazione di devozione per l’associazione nel suo complesso, e in particolare per i suoi capi, si verificarono quando non vi era possibilità alcuna di equivoco sui contenuti, com’è per esempio per la gratuita assegnazione di abitazione alla famiglia di Cuomo Antonino, allora pupillo di Cutolo, dopo la sua evasione dal carcere di Santa Maria Capua Vetere”.
Nell’aprile 1986 la quarta sezione della corte d’appello di Napoli (presidente Luigi Cristiano, giudici a latere Massimo Freda e l’estensore Alfonso Stravino) assolve per insufficienza di prove Cesaro, assoluzione per insufficienza di prove che la Cassazione conferma.
Intervistato un anno fa da Iustitia sulla condanna in primo grado del presidente della Provincia, l’allora eurodeputato Luigi De Magistris dichiarava: “c’è un un filo rosso che lega la sentenza del 1985 alle indagini in corso sul presidente della Provincia di Napoli, passando attraverso altre inchieste che hanno interessato Cesaro. Di alcune che toccavano la rete dell’usura (con il

coinvolgimento di Cesaro e di alcuni suoi familiari), uomini della camorra e funzionari di banca mi sono occupato direttamente tra il 1999 e il 2000, quando ero sostituto alla sezione criminalità economica della procura di Napoli. Ed è un filo rosso che fa


Antonino Cuomo e Pasquale D'Amico

emergere rapporti duraturi nel tempo, con il ripetersi di fatti gravissimi”.
Ma al di là delle vicende penali, resta il dato incontrovertibile dei rapporti stretti nel 1985, e negli anni precedenti, di Cesaro con i capi della Nco.
E allora viene da chiedersi: perché Cesaro parla di Siani e dell’impegno del giornalista contro la camorra? E perché i giornali napoletani riportano in maniera acritica le sue dichiarazioni imbarazzanti?