La 'memoria' esige rigore

Caro direttore,
il 27 gennaio di 72 anni fa l’apertura dei cancelli di Auschwitz avrebbero raccontato al mondo tutto l’orrore della Shoah; da quindici anni a questa parte, ovvero dal 27 gennaio 2001 (data in cui anche l’Italia celebrò la sua prima Giornata della Memoria), dobbiamo spesso sorbirci il festival di corbellerie associate al tema.
È successo anche quest’anno, di buon mattino, giusto per farti andare per traverso la giornata. Non avendo mai messo alla berlina nessuno, tantomeno un collega, eviterò di citare la testata e il nome del collega protagonista della prima corbelleria andata in onda il 27 gennaio 2016. L’argomento trattato riguardava la tragica fine di Sergio De Simone, il bambino napoletano di 7 anni, assassinato dopo essere stato sottoposto ad inutili quanto crudeli esperimenti medici da un medico SS: il dottor Kurt Heißmeyer. E parlando proprio di quest’uomo il collega lo definisce un “folle”. La cosa mi fa sobbalzare, anche perché a quella stessa ora potrebbero essere migliaia le persone sintonizzate su quel canale, accettando per buona l’affermazione del giornalista. Sì perché quel signore o non sapeva cosa fosse la “follia” o, al contrario, di cosa si fosse reso responsabile il dottor Heißmeyer.
Cominciamo dalla prima: la follia. Stando a quel che ho sempre saputo, pur non essendo uno psichiatra, si tratta di uno stato di alienazione, solitamente associato ad una grave malattia mentale; quindi qualcosa che non permette alla persona folle di essere pienamente cosciente delle sue azioni. Al riguardo mi piace ricordare che il nostro codice penale giudica “impunibile” una persona che al momento di commettere un determinato reato non era in grado di intendere e di volere. Sintetizzando al massimo il concetto un “folle” è per natura stessa della sua condizione di “follia” scevro da colpe o responsabilità. Possiamo dire la stessa cosa del dottor Kurt Heißmeyer?
Credo proprio di no. La sua storia provo a sintetizzarla, ma a chi la volesse approfondire suggerisco due bei libri: “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”, curato da Maria Pia Bernicchia o “Der SS-Arzt und die Kinder vom Bullenhuser Damm”, scritto dal giornalista tedesco Günther Schwarberg, che per primo squarciò il velo del silenzio sui crimini di Heißmeyer.
Convinto di poter debellare la tubercolosi attraverso un suo personalissimo metodo e grazie alle amicizie acquisite nelle alte sfere delle SS, iniettò a venti piccole cavie ebree (tra cui il napoletano Sergio De Simone) il bacillo della Tbc, attraverso l’asportazione delle ghiandole ascellari e l’inoculazione di agenti patogeni virulenti introdotti nei polmoni con l’utilizzo di una sonda. L’esperimento – come ampiamente prevedibile – non portò ad alcun risultato, se non a quello di eliminare le prove del crimine. Vale a dire l’eliminazione fisica dei venti “Jüdische Kinder”. Cosa che puntualmente avvenne durante la notte del 20 aprile 1945 nei sotterranei di Bullenhuser Damm, un vecchio edificio scolastico ubicato alla periferia di Amburgo. Arrestato a vent’anni di distanza dal crimine fu condannato all’ergastolo con sentenza del tribunale distrettuale di Magdeburgo. Morì in prigione nel 1967.
A questo punto mi piacerebbe conoscere se il collega che ha dato del “folle” a un soggetto che con premeditazione ha posto in essere la morte di venti bambini (il più piccolo aveva 5 anni, il più grande 13), lo continua a considerare una persona a cui concedere “l’impunità” prevista anche dal nostro diritto. Francamente mi auguro di no.
Ma il danno causato da quell’aggettivo fuori posto (folle) è un ulteriore oltraggio a quelle piccole vittime.

Nico Pirozzi
(coordinatore del progetto Memoriæ)

 
Sergio De Simone
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