Sigillo Cassazione:
Vespa ha diffamato

DOPO LA SENTENZA di primo grado del maggio 2003 e l’appello del gennaio 2006, il 20 luglio scorso è stata depositata la decisione della Corte di Cassazione: Bruno Vespa con il libro ‘La sfida’, edito da Mondadori nel '97, ha diffamato i magistrati napoletani Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano. Dopo undici anni (la citazione è del novembre ’99) arriva il sigillo definitivo per un match che ha visto Vespa sconfitto in tutti gradi di giudizio, con il  risarcimento danni riconosciuto in primo grado raddoppiato dai giudici della corte d’appello di Milano e blindato dalla Suprema corte. In campo staff agguerriti di avvocati dei fori di Milano, Napoli e Roma: per Vespa in appello Ugo Carnevali e Vincenzo Zeno Zencovich, che si è occupato anche del

giudizio in Cassazione; per la Mondadori in secondo grado Antonio Palmieri e Giovanni Polvani, schierato anche davanti alla Suprema corte insieme a Ester Silvestri; per i magistrati napoletani Achille Janes Carratù e Enrico Vitali a Milano e Adriano Giuffrè al


Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano

Palazzaccio. In dieci pagine la terza sezione civile della Corte di cassazione (presidente Mario Rosario Morelli con i consiglieri Mario Finocchiaro, Alfonso Amatucci, Annamaria Ambrosio e la relatrice Adelaide Amendola), accogliendo la richiesta del sostituto procuratore generale Carmelo Sgroi che ha chiesto il rigetto dei ricorsi, conferma che è diffamatorio il contenuto del capitolo ‘La storia di Chiara’, dedicato alla vicenda dell’amministratore delegato della Sip Vito Gamberale arrestato il 27 ottobre del ’93 su richiesta dei pm Cantelmo e Quatrano.
Nella sentenza c’è prima una nota critica forte: “un giornalista – e a maggior ragione un giornalista che voglia occuparsi di questioni siffatte – può e deve avere l’attrezzatura culturale necessaria a distinguere tra iniziative e provvedimenti del Csm e iniziative e provvedimenti del Ministero”.
Poi la relatrice smonta la tesi che i passaggi ritenuti diffamatori dai giudici di primo e secondo grado non vanno puniti perché riportano dichiarazioni virgolettate di Gamberale.
“Le sezioni unite di questa Corte – scrive il consigliere  Amendola – hanno ritenuto essenziale non solo che le dichiarazioni dell’intervistato siano fedelmente riprodotte, ma anche e soprattutto che il giornalista, sul quale grava pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite, abbia assunto una posizione imparziale”.
E per la corte evidentemente Vespa “imparziale” non è. “Il giudice di merito – continua infatti la relatrice – non solo ha evidenziato che l’intervista era punteggiata da domande di cui appariva ovvia la risposta nonché accompagnata da notizie allusive, da sottintesi, da ambiguità suggestionanti tali da ingenerare nel lettore la convinzione della rispondenza al vero dei fatti esposti, ma ha soprattutto considerato dirimente l’omessa menzione delle circostanze che avevano portato all’esclusione di ogni responsabilità dei pubblici ministeri; di possibili, alternative ricostruzioni dei fatti, già conoscibili al momento della pubblicazione del libro, nonché della richiesta di informazioni presso gli stessi interessati al fine di verificare la loro versione dei fatti”.
Da qui la conferma della condanna a un risarcimento di 24mila euro a ognuno dei diffamati e al pagamento di altri 3200 euro di spese legali.