Con Califano il mio debutto

Orso. Forse è così che lo avrei ribattezzato, se avessi dovuto affibbiargli una maschera, un’allegorica metafora un… pelo nuovo di zecca, quando lo vidi seduto la prima volta alla sua postazione di lavoro. Era il 1993 e nella redazione del Giornale di Napoli al Centro direzionale con me muovevano i primi passi professionali Dario Del Porto, Giantomaso De Matteis, Rosa Benigno, insieme a tanti altri, tra cui Raffaele Auriemma, Michele Rinnovato e Alfredo D'Agnese.
Ero una pivellina alle prime armi, all’epoca, saccente e arrogante per i titoli che sciorinavo tutto d’un fiato. Califano mi degnò di attenzione un pomeriggio d’agosto, suo malgrado, mentre il vice, responsabile della provincia, era di corta.
“Era così illeggibile il mio pezzo?” gli chiesi ironicamente interdetta al telefono, delusa per non averlo trovato tra quelli pubblicati il mattino. “Affatto” mi rassicurò garbato, “sapessi cosa mi capita talvolta sotto gli occhi".
Il giorno seguente il mio modestissimo articolo era lì: campeggiava in apertura con un titolone a piena pagina, complice la penuria di notizie dovuta alla calura estiva, perché quella voce misteriosa al telefono aveva immediatamente provveduto a tappare la “falla” aperta nel mio orgoglio frustrato di corrispondente in erba.
È a Sergio Califano che devo il mio debutto nel mondo della carta stampata: a lui e a Marcello Curzio, uno dei trombati all’ultimo tour elettorale all’Ordine dei giornalisti campani, devo “l’opportunità” attesa e desiderata per tutta la mia vita di adolescente sognatrice e un po’ visionaria.
Allora, come oggi, non ero nessuno: non esibivo cognomi reboanti, non mi fregiavo di parentele o di amicizie influenti, non avevo sponsor politici o più o meno in auge tra la sdegnosa borghesia chiattilla (è così che si dice?) partenopea; ero una principiante, una precaria in fieri, se non altro in attesa di essere messa alla prova. Lanciai la sfida e qualcuno la raccolse.
Califano e Curzio, nel bene e nel male, mi hanno insegnato tutto quello che ho imparato di questo mestiere “infame”: quello che avrei dovuto sapere e quello che non avrei mai voluto scoprire. Tuttavia, non rammento dei loro volti, non una volta, l’acerba espressione dell’invidia o della gelosia professionale, che pure rodono il fegato di tanti colleghi perpetuamente in competizione con amici di amici e favoriti dell’ultima ora.
Lo scoop di uno solo, effimero e travolgente come gli istanti che si susseguono rotolandosi nell’aria senza mai toccare terra, era motivo di trionfo per tutti; e l’insuccesso comune, sempre in agguato, era il “fiasco” e l’occasione mancata del singolo.
Dopo anni di silenzio e di “autoconfino” al Nord, desiderosa di tornare all’incanto di questo inferno napoletano, sono stati soltanto loro due a lasciarmi intravedere una porta socchiusa: con la schiettezza e la spontaneità di sempre, quella che appunto connota il bene e il male, mi hanno detto “torna, si vedrà…” .
“Giornalista in sonno”, oggi attendo usmando nell’aria quel qualcosa che succederà e che, di tanto in tanto, tra una lotteria e l’altra, conduce Califano al rifugio della penombra; e Curzio a ritentare un’impresa impossibile anche quando entrambi, e sin dal principio, sanno che la sconfitta è in agguato, a portata di… ossa rotte e stampelle riposte in un angolo facilmente raggiungibile della propria tana.
Ho conosciuto uomini (pochi), ominicchi (parecchi) e quaqquaraquà (una moltitudine innumerabile) nel nostro universo di carta e di inchiostro, per dirla con chi ha saputo prestare orecchio al canto di una civetta; ne ho toccato la meschinità e la grandezza: in silenzio, in attesa, sospesa a una speranza, a un ricordo, a un addio mutato, col tempo, in un arrivederci. Mai, però, mi era accaduto di sfiorare tanta maestosità nella dignità semplice, autentica, lieve e sussurrata di un dolore. Bentrovati.

Maria Teresa Di Casola
 
Dario Del Porto
Giantomaso De Matteis
Rosa Benigno
Raffaele Auriemma
Michele Rinnovato
Alfredo D'Agnese
Marcello Curzio
Maria T. Di Casola