Al Quirinale il racconto
sull'editore maramaldo

Il primo febbraio, in occasione dei cinquanta anni dalla approvazione della legge che ha istituito l’Ordine, una delegazione di giornalisti guidata dal presidente dell’Ordine nazionale Enzo Iacopino ha incontrato al Quirinale il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. In quella sede Iacopino ha invitato a parlare la cronista napoletana Amalia De Simone che ha raccontato la sua vicenda di giornalista citata in giudizio dal suo editore. Questo il testo dell’intervento

“Caro presidente della Repubblica, grazie ai ragazzi di Radio Siani sono
diventata molto brava a scuola. Mi raccomando vienici a trovare, ti aspettiamo a braccia aperte. Questa radio è in un bene confiscato alla camorra di Ercolano. Qui sono tutti simpatici e li voglio un mondo di bene. A presto presidente, non ti dimenticare di venirci a trovare”, un cuoricino per firma.
“W Napolitano, ti vogliamo bene presidè” - poi qualcuno si è anche preso un po' di confidenza scrivendo “bello frà..” - È Mirko.. e quando gli abbiamo detto ma come chiami frà il presidente della Repubblica lui ha risposto: “Certo, se non mi è fratello lui chi lo può essere...”
Questi disegni, queste frasi sono state scritte da alcuni ragazzini, quasi
tutti figli di famiglie cosiddette difficili, papà in carcere, agli arresti
domiciliari se non addirittura morto ammazzato, eppure, ciò che noterà
presidente, leggendo i loro pensieri, è che la parola camorra è entrata nel
loro vocabolario e nelle loro vite in maniera diversa, vestita di tutto il male
possibile, senza alibi o attenuanti e soprattutto capirà che molti di loro ora
riescono a vedere tante cose nel proprio futuro, tante possibilità.. e non il
percorso obbligato che spesso hanno fatto i loro parenti. Un nipote del boss ex proprietario della casa diventata radio Siani ha scritto su una parete abbasso la camorra. Quando l'ho letto mi sono sentita felice. Per queste cose qui vale la pena partecipare alla web radio della legalità che, cercando di non abusarne porta il nome di un cronista giovane e precario, Giancarlo Siani.
A Radio Siani siamo tutti volontari e anche io che sono una giornalista e la dirigo, lo sono. Ma è una scelta, una scelta in una circostanza particolare. Invece tanti, troppi miei colleghi finiscono per essere obbligati al volontariato nei confronti di grosse aziende editoriali che li sfruttano senza uno straccio di prospettiva. E sono quelli che scrivono tutti i giorni che cercano le notizie che consumano la suola delle scarpe. Caro presidente ne avevamo già parlato sei anni fa: ci fu un incontro tra tutti i giornalisti vincitori di premi quì al Quirinale. C'ero anche io, le scrissi che il vero premio sarebbe stato il rispetto dei diritti per chi è precario. Lei generosamente e come sempre in maniera lungimirante nel suo discorso affrontò la questione, forse per la prima volta, pubblicamente, del precariato giornalistico. Grazie.
Grazie, perché essere giornalisti precarizzati, abusivi, precari - è difficile
dare un contorno e una definizione - significa a volte non arrivare a fine mese, subire pressioni, eppure tirar fuori notizie, stare per strada. Rischiare in prima persona, confrontarsi col camorrista, col mafioso e con i colletti
bianchi della criminalità organizzata che sempre più spesso pensano di
intimidirti minacciando e proponendo querele infondate. A me è successo tante volte, e succede ancora, soprattutto quando documento intrecci tra il mondo dell'economia, della politica e delle mafie. Nessun procedimento in sede penale è mai arrivato a giudizio, non perché non si possa sbagliare - solo chi non fa nulla non commette errori - ma perché la maggior parte delle volte le accuse erano semplicemente pretestuose, proposte da chi sapeva di avere di fronte un precario, un non garantito, un non tutelato, uno che doveva pagarsi l'avvocato per andare a sostenere gli interrogatori o depositare tutti gli atti su cui si fondavano i propri pezzi, che perdeva giornate di lavoro, che rischiava anche di essere messo da parte.
Poi però capita anche peggio, e cioè che un editore si svegli un bel giorno,
calpesti il principio del rischio di impresa e tradisca quel patto di fiducia,
di solidarietà, che c'è con il giornalista che ha scelto, quello che ha lavorato sodo, che tante volte gli ha portato gli scoop che fanno vendere tante copie... e decide di chiedere un risarcimento danni al cronista per una causa in sede civile persa in merito ad una vicenda complessa e per una diffamazione dovuta prevalentemente ad un titolo sbagliato (elemento che non compete ad un collaboratore) e a una rettifica inadeguata, che il cronista precario aveva invece più volte sollecitato.
È capitato a me. So di subire un'ingiustizia, sto affrontando tutto e ho il
dovere di non restare zitta, ho il dovere di raccontarlo come faccio oggi,
perché potrebbe succedere la stessa cosa a tanti altri, soprattutto se dovesse
passare questa linea.
L'editore mi ha chiesto i danni... li ha chiesti a me giornalista precarizzata
che per anni, fino al 2008 ha coperto la cronaca nera e giudiziaria di tutta la provincia di Napoli per Il Mattino. Una situazione giustificata incredibilmente da uno dei vertici dell'azienda come una conseguenza di una causa di lavoro che io avevo intentato contro il giornale, per far valere i miei diritti che ritenevo lesi. Non certo per tornare a lavorare lì, ma per una questione di dignità, per giustizia e per lasciare una testimonianza agli altri che come me avevano fatto un percorso simile. Accanto a me oggi c'è tanta gente, ci sono le associazioni, ci sono i coordinamenti dei giornalisti precari di tutta Italia, il sindacato, l'Ordine e Enzo Iacopino, un presidente dell'Ordine capace di essere da sempre con coraggio in prima linea nelle battaglie degli ultimi.
Oggi io continuo a fare questo lavoro, non saprei fare altro... continuo a
fare inchieste, video inchieste, per la versione web del Corriere della sera,
con dei capi che finora non mi hanno mai lasciata da sola nelle difficoltà e ce ne sono state tante... Ma ogni volta vivo con ansia il mio lavoro, con il
pensiero non solo delle ordinarie intimidazioni, ma soprattutto che una vita
intera possa essere condizionata da una eventuale richiesta risarcitoria. Un
pensiero comune a tanti che come me non hanno un cognome famoso, e che invece continuano nella normalità a fare giornalismo d'inchiesta, di denuncia, senza vestirsi con abiti da supereroi, ma facendo semplicemente quello che è giusto, quello che deve essere fatto, quello che appunto è normale. Subendo però la anormalità dell'assenza di tutele, l'anormalità di compensi inaccettabili, e perfino l'accanimento degli editori. Prima o poi qualcuno di noi dirà "ma chi me lo fa fare". E sarà in quel preciso istante che diventerà precaria anche la libertà di stampa.