Giubilo per Ronaldo,
silenzio sui 5 licenziati

IL 10 LUGLIO il Real Madrid e la Juventus, società controllata Fiat, annunciano il trasferimento di Cristiano Ronaldo dalla capitale spagnola a Torino: costo del cartellino 117 milioni e per il giocatore un contratto quadriennale a sessanta milioni lordi l’anno. Il giorno successivo sui quotidiani esplode la festa.
Il Corriere della sera, fino a due anni fa con la Fiat socio di maggioranza della Rcs, e la Repubblica, gruppo ora guidato da un accordo tra la Cir di De Benedetti e la società torinese, hanno al centro della prima pagina una grande foto del calciatore portoghese e riservano al nuovo acquisto tre intere pagine il Corriere e due Repubblica.
Un mese fa, il 6 giugno, la Corte di cassazione (presidente Antonio

Manna, consigliere relatore Elena Boghetich) aveva emesso una sentenza importante in tema di libertà di critica che ribaltava la decisione della Corte d’appello di Napoli e licenziava in via definitiva

Marco Cusano, Roberto Fabbricatore e Sergio Marchionne

cinque operai della Fca Italia: Marco Cusano, Roberto Fabbricatore, Domenico Mignano, Antonio Montella e Massimo Napolitano. La notizia però il 7 giugno veniva ridotta a un boxino di venti righe con foto sul Corsera e ignorata dai giornalisti delle pagine nazionali di Repubblica che la relegavano nella cronaca campana.
Perché i licenziamenti? Gli operai, trasferiti dallo stabilimento di Pomigliano a Nola e scossi dai suicidi di alcuni colleghi schiacciati dalla pressione delle scelte aziendali avevano inscenato un “finto suicidio – scrive il giudice Boghetich - dell’amministratore delegato della società (Sergio Marchionne, ndr) tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso (a mo’ di sangue) e del funerale con contestuale affissione di un manifesto, a mo’ di testamento, ove si attribuivano all’amministratore stesso le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri nello stabilimento di Nola”.
Secondo i magistrati della Corte d’appello di Napoli l’iniziativa degli operai andava inquadrata “nell’esercizio del legittimo diritto di critica dei dipendenti in quanto rispettosa dei limiti di continenza sostanziale (per la rispondenza al criterio della verità soggettiva, in considerazione della lettera lasciata da uno dei dipendenti morto suicida che riconduceva la ragione della tragica scelta alla condizione lavorativa e delle opinioni dello stesso tenore rilasciate da altra dipendente suicidatasi nel maggio del 2014) e di continenza formale (per l’assenza di violenza o di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della denuncia che si voleva realizzare e trattandosi di fatti già portati all’attenzione dell’opinione pubblica)”. 
Contro la sentenza di secondo grado hanno presentato ricorso gli avvocati della Fca Italia, Raffaele De Luca Tamajo, Antonio Di Stasio, Giorgio Fontana e Vincenzo Luciani. E le loro tesi sono state in gran

Domenico Mignano, Antonio Montella e Massimo Napolitano

parte condivise dal giudice Boghetich la quale, tra l’altro, sostiene che “le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica

convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra ma riconducibile a una fisiologica contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso, senza alcun interesse a un confronto con la controparte, annichilita nella propria dignità di contraddittore”. Ne consegue che “la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito con il rigetto delle domande. Le spese di lite sono integralmente compensate tra le parti in considerazione della grave situazione di turbamento psicologico in cui i fatti si sono verificati”.
Piccola notizia da ricordare a proposito delle citate “violenza” e “annichilimento della dignità”: dopo la sentenza della Corte d’appello che reintegrava in servizio i cinque operai l’azienda ha pagato gli stipendi ma non ha consentito che rientrassero in fabbrica lasciandoli inattivi a casa.
Dopo il giudizio della Cassazione la questione è definitivamente chiusa? Abbiamo girato la domanda all’avvocato Giuseppe Marziale che assiste i cinque licenziati. “Penso di no. Stiamo valutando - dichiara Marziale – un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo basato su due motivi entrambi riferiti a violazioni  della Carta europea dei diritti dell’uomo in relazione al giusto processo nonché in relazione alla libertà di pensiero e di espressione. E c’è anche la possibilità di un ricorso alla Corte di cassazione per chiedere la revocazione della sentenza che contiene un grave errore di fatto”.