Gentile direttore,
ho letto con attenzione l’articolo da lei pubblicato su Iustitia in relazione alla severa sentenza emessa dal tribunale civile di Napoli nei confronti della società editrice del quotidiano Il Mattino, del suo ex direttore Mario Orfeo e dello scrittore Diego De Silva (autore, tra l’altro, del romanzo ‘Non avevo capito niente’) e dei giornalisti Antonio Manzo e Giuseppe Napoli, condannati al risarcimento in solido nei miei confronti a seguito di numerosi e in gran parte ripetitivi articoli diffamatori pubblicati dal 7 al 12 dicembre
2004.
Fossimo stati negli Usa, un paese avanzato dove la dignità e la reputazione dell’uomo non si misurano a peso, sul fatto, cioè, di essere o non essere un personaggio noto a livello nazionale o internazionale, di essere o non essere citato nel Marquis Who’s Who in the World oppure nell’International Biographic Centre di Cambridge tra gli Outstanding Intellectuals of the 21st Century, o sulla base dell’ambito regionale di divulgazione della notizia diffamatoria, una sentenza del genere sarebbe costata anni di carcere e di indennizzi milionari a carico dei diretti interessati.
Ma veniamo ad alcuni dei fatti ai quali lei fa riferimento per qualche precisazione in ordine soprattutto alla mia posizione giudiziaria, alla cosiddetta archiviazione ed alla prescrizione.
Dopo sette anni di indagini (2003-2010), il pubblico ministero dell’inchiesta Roberto Penna chiede al giudice per le indagini preliminari Gaetano Sgroia il mio rinvio a giudizio. Per quanto rischioso, ma nella piena consapevolezza e serenità della mia innocenza, chiedo, a mia volta, ai difensori, di fare presto e di passare al rito abbreviato direttamente. Un processo lungo avrebbe fatto soltanto il gioco di quel qualcuno definito da altri come “Il grande burattinaio” di questa ignobile vicenda. Richiesta, quindi, accolta dal gip.
Quanto ai pubblici ministeri non c’è evidentemente accordo sulla tesi accusatoria sostenuta da sempre dalla Procura. Infatti il pm di udienza, Vittorio Santoro, nonostante la consuetudine dei pm volta a sostenere le tesi propugnate dai colleghi titolari delle indagini, in totale dissenso con il pubblico ministero Roberto Penna, chiede e ottiene la mia piena assoluzione per i due capi di imputazione più gravi (falso materiale e peculato, commesso da altri in mia documentata assenza come emerso nei verbali di Polizia), mentre per il terzo (falso ideologico) prevale la prescrizione. La tesi della mia innocenza in Procura viene rafforzata dalla mancata impugnazione della sentenza del gip sia da parte del pm Santoro sia da parte del Procuratore generale della Corte di appello.
A dire la verità una impugnazione c’è, ma è solo la mia, avendo rifiutato, come lei rileva, la prescrizione per un presunto reato di falso ideologico in quanto accusato di avere convalidato sul libretto di una anziana studentessa la prova di inglese senza che l’interessata l’avesse mai sostenuta. La signora in questione, invece, aveva pienamente diritto a quel ‘regalo’ istituzionale certamente non inventato da me, esattamente come gli altri 4.494 studenti (i conti sono giusti, stia certo!) della facoltà di Economia dell’università di Salerno che, prima e dopo di lei, nel solo biennio 2002-2004 (si proseguirà, poi, fino al 2007), ne avevano o ne avrebbero beneficiato alle medesime condizioni a lei negate. Il tutto attraverso una procedura cartacea tra uffici basata sulla presentazione in segreteria della richiesta certificazione di frequenza scolastica pari ad almeno 450 ore. Cosa che escludeva la procedura tradizionale dell’esame via commissione, interrogazione, verbalizzazione, registrazione a libretto. Ragion per cui l’annotazione sul libretto di prova convalidata d’ufficio, una novità assoluta tutta salernitana, costituiva solo un riconoscimento formale agli studenti che ne avessero fatto esplicita richiesta. Una soluzione che lascerà di stucco i miei colleghi linguisti dell'università Bocconi e quelli di altri atenei nazionali ed internazionali al termine del mio intervento sul tema nel convegno tenutosi a Milano il 27 novembre 2004.
Nel caso che mi riguarda, l’episodio è avvenuto nella mia stanza, alla presenza di più persone. Non nego che le apparenze possano avere indotto chi ci video-filmava (la polizia scientifica) a cadere nell’errore. L’episodio, infatti, viene interamente video registrato dalla polizia, sia nella prima fase nel corso della quale annoto il superamento della prova sul libretto dell’interessata, sia – ne sono certo - nella seconda fase, pochi minuti dopo, cioè, nel corso della quale annullo la mia precedente decisione per ragioni di opportunità nei confronti dei colleghi del comitato. A tale scopo invitai la sorella dell’interessata presente all’incontro (nonché funzionaria della nostra università), rientrata nella mia stanza e su sua esplicita richiesta peraltro non motivata, a far cancellare alla sorella, in quel momento rimasta presumibilmente fuori stanza, l’avvenuta annotazione sul quel libretto. E qui scatta un altro giallo. Tra gli atti di indagine messi a disposizione della difesa prima dell’udienza davanti al gip, non c’è traccia alcuna di quella seconda parte certamente videoregistrata del filmato, benché più volte richiesto. Cosa che, a prescindere dalla legittimità della annotazione di ufficio in sé a libretto in virtù del diritto acquisito dalla anziana studentessa, mi scagiona due volte dal presunto ‘reato’. Tesi non sostenuta soltanto da me in quanto parte interessata, ma condivisa da qualche alto e autorevole magistrato della Procura della Repubblica, al quale avevo illustrato nei dettagli l’episodio subito dopo averne avuta conoscenza. Nella peggiore delle ipotesi, a suo dire, solo un falso innocuo, che non avrebbe prodotto effetti per un reato non previsto o, tutto al più, un abuso di ufficio per avere scavalcato quel comitato, ma non punibile.
Che su questa indagine insistano stranezze, ambiguità comportamentali e procedurali e cose difficilmente comprensibili sia agli addetti sia ai non addetti ai lavori sono in molti a pensarlo. Qualcuno tra i media (Il Quotidiano di Salerno per primo, e poi Positanonews e Il Vescovado di Ravello) ha avuto, e più volte, il coraggio di mettere nero su bianco, sollevando pesantissimi interrogativi su molti suoi aspetti, specie per quanto riguarda diversità di valutazione in ordine ad accertati, identici e, forse, ben più gravi reati commessi.
Resta lo scandalo culturale in sé riguardante la ‘geniale’ invenzione della frequenza scolastica per godere, di ufficio, del riconoscimento di crediti universitari a chi all’università solitamente si reca per aumentare il proprio livello di studio e di formazione e non accontentarsi del proprio passato.
Ma soprattutto restano diecimila dubbi che solo un accertamento documentale potrebbe sciogliere. E, cioè, è vero o non è vero che, la stragrande maggioranza di quei ‘fortunati’ studenti favoriti dal magnifico ‘regalo’ potrebbe non avere prodotto la richiesta certificazione scolastica di frequenza e, in sostituzione e contro i deliberati a suo tempo assunti, avere presentato fotocopie non sempre autenticate (e quindi non valide?) di presunti diplomi scolastici: pubblici, “pareggiati” e, ovviamente, privati?
Perché Raimondo Pasquino, rettore dell’università di Salerno fino al prossimo 31 ottobre, all’ennesima denuncia circostanziata a lui indirizzata il 26 febbraio 2011, risponde, questa volta personalmente, fischi per fiaschi? Mistero sì, ma non insolubile. Dipenderà, ovviamente, dai successivi interlocutori istituzionali coinvolti per dovere morale o per dovere d’ufficio.
Devo aggiungere che ho scritto queste precisazioni perché, al di là del fatto in sé che individualmente mi riguarda, ritengo che una società civile debba essere degna di formare i propri giovani nel rispetto della verità e di una cultura non inventata o, peggio, regalata. Resta l'amarezza di non avere trovato il dovuto sostegno da parte dei miei diretti interlocutori di ateneo in quella che resta, purtroppo, una delle più inquietanti vicende accademico-istituzionale-giudiziarie del nostro tempo. Con stima e gratitudine, |