D'Errico: "Nessuno
tocchi i direttori"

L’editoriale del direttore del ‘Corriere del Mezzogiorno’ Enzo D’Errico pubblicato il 9 marzo scorso

Purtroppo non siamo immuni dal contagio. Il dibattito che si è aperto sul possibile (ma sventato) trasferimento delle «Sette Opere di Misericordia» dal Pio Monte al Museo di Capodimonte, per una mostra su Caravaggio e i caravaggeschi, dimostra che ormai viviamo, discutiamo, amiamo, odiamo come se fossimo irrimediabilmente prigionieri di un immenso social network dove non conta la materia del contendere ma l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo, all’uno o all’altro salotto. Questa deregulation del pensiero, che segue (forse inconsapevolmente) quella amministrativa imposta dal sindaco Luigi de Magistris in otto anni di liberismo selvaggio, cancella ogni soglia critica: o sei con me o sei contro di me. Si va avanti a forza di «like» e «dislike», pollice in alto e pollice in basso, calpestando la natura dialogica del confronto, ossia due opinioni di segno opposto che si contrappongono cercando, nel reciproco ascolto, di trovare una sintesi comune o, qualora ciò non fosse possibile, di offrire alla comunità gli strumenti per una scelta autonoma. È come se un’enorme rabbia si fosse impadronita di noi, spingendoci a ringhiare di fronte a un dubbio, a un dissenso, fino a sbranare con insulti, dileggi e infamie (addirittura di carattere privato) chiunque osi attaccare il branco nel quale ci identifichiamo. Il retroscena invade la scena, la inghiotte con le sue ombre.
E allora Tizio scrive quella cosa soltanto per consumare una vendetta privata, anzi per invidia, anzi no per pura cattiveria e poi che ne sai del suo passato e della volta in cui… Sembra quasi che nessuno possa più essere il mandante delle proprie idee ma che debba necessariamente avere alle spalle un suggeritore, coltivare un fine oscuro, agire per conto terzi. È la Napoli delle caste, delle famiglie, dei notabili, che disegna una città a sua immagine e somiglianza, trasformando il discorso pubblico in chiacchiericcio da salotto, pettegolezzo da dopocena. E questa Napoli, da sempre, coccola i direttori di museo «figli» della riforma Franceschini, li considera parte di sé quasi fossero icone intoccabili di un’idilliaca gouache, disancorata dalla realtà e da qualunque criterio di valutazione. Guai a dire che Caio ha lavorato bene mentre Sempronio è stato un bluff: l’accusa è di lesa maestà. Risultato: nessuno tocchi i direttori. Così, a prescindere. Chi si azzarda ad avanzare una perplessità, viene fucilato nella pubblica piazza con editoriali, post e tweet. Il «caso Caravaggio» lo testimonia.