Una sentenza in difesa
della libertà di stampa

DALLA UNDICESIMA sezione penale del tribunale di Napoli arriva un segnale concreto e forte in difesa della libertà di stampa. Il 10 luglio il giudice monocratico Carlo Spagna ha condannato tutti gli imputati (Luigi Giuliano e sua moglie Carmela De Rosa; il cugino di Luigi, Guglielmo Giuliano; i coniugi Salvatore Turino e Gilda D’Angelo) per il reato di violenza privata

e minaccia nei confronti di don Luigi Merola, fino al giugno 2007 parroco della chiesa di Forcella, e di Arnaldo Capezzuto, all’epoca dei fatti cronista del quotidiano Napolipiù. Le pene vanno dai due anni e sei mesi di reclusione per Luigi Giuliano a un anno inflitto


Arnaldo Capezzuto e don Luigi Merola

ai coniugi Turino e D’Angelo, ai quali la pena viene “sospesa alle condizioni di legge”. Il giudice ha anche condannato Luigi Giuliano e Carmela De Rosa al “risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili che liquida, in via equitativa, in 10mila euro in favore di Capezzuto Arnaldo e in euro 25mila in favore dell’Ordine dei giornalisti della Campania, con pagamento di una provvisionale in favore del primo di 2500 euro, oltre alle spese di avvocato che liquida in 1500 euro per ciascuna delle parti civili”. Ha inoltre condannato Luigi De Rosa e Carmela De Rosa alla pubblicazione della sentenza per estratto sui quotidiani La Repubblica, Il Corriere del Mezzogiorno e Il Mattino, e per intero sul settimanale on line Iustitia. 
Non si è invece costituito parte civile don Luigi Merola. Nel novembre 2008, intervistato da Iustitia, Merola spiega: “La presenza in aula come parte civile mi appare in contraddizione con il mio essere sacerdote. Non mi sento un prete anticamorra, ma un prete che si batte per il recupero delle persone e delle realtà oppresse. Non mancherà mai la mia testimonianza e la mia denuncia, perché la verità ci farà liberi, come dice Gesù nel vangelo di


Francesco Caia e Crescenzio Sepe

Giovanni, ma è altrettanto certo che da parte mia non ci sarà accanimento giudiziario”.
Ma l’ex parroco di Forcella con la sua testimonianza fornisce un contributo importante. Almeno tre i passaggi di rilievo: la scorta, la curia, il quartiere. Merola

racconta che dopo le minacce era stato affidato alla custodia di due poliziotti, ma quando Guglielmo Giuliano andò a trovarlo nella sacrestia della parrocchia per minacciarlo i due poliziotti si erano allontanati e quando uscì dalla chiesa non li trovò. Non solo: uno dei due girava spesso per le strade del quartiere a vendere calendari e dopo la segnalazione della vicenda alla questura venne sostituito. Alla domanda sul perché era andato via da Forcella il sacerdote parla di una scelta “concordata” con il cardinale Sepe, salvo poi chiarirne con precisione il senso. “A metà giugno – dichiara don Merola in aula – dissi a Sua Eminenza: “O continuiamo a settembre questa battaglia a Forcella, insieme con tanti altri sacerdoti, o io sono disposto a lasciare per un altro incarico” e Sua Eminenza si prese una settimana e mi disse: “Allora … anche perché c’è stato tutto questo stress in questi anni, ti darò un nuovo incarico, farai una nuova esperienza”. Perciò dico una scelta condivisa”. 
Infine il sacerdote affronta in maniera frontale il nodo del quartiere. E denuncia che a Forcella “è tornato tutto come prima , peggio di prima. Basta andare a fare una passeggiata davanti alla chiesa, davanti alla scuola ‘Annalisa Durante’, che è simbolo di legalità, si continua a spacciare, a vendere sigarette di contrabbando. Forcella ormai sembra insanabile, ma è insanabile perché non c’è una volontà”.
Merola fa la sua deposizione il 28 novembre 2008, nel corso della prima udienza del processo. In aula ci sono il parroco e il giornalista minacciato, che si costituisce parte civile assistito dall’avvocato Cesare Amodio, il presidente dell’Ordine degli avvocati Francesco Caia, che con il collega Giuseppe Vitiello, presenta la costituzione di parte civile per l’Ordine dei giornalisti della Campania. Sono anche presenti Giuseppe Crimaldi del

Mattino, consigliere nazionale dell’Unione cronisti, Lucia Licciardi dell’Agenzia Italia, consigliere dell’Assostampa, e Renato Rocco, collaboratore di testate minori e presidente dei


Cesare Amodio, Lucia Licciardi e Renato Rocco

cronisti napoletani. Agenzie e quotidiani daranno brevi notizie della presenza in aula dei giornalisti e neanche una parola sulle dichiarazioni rese in un’aula di tribunale da don Luigi Merola. Ma forse una scorta di polizia che scompare al passaggio di Guglielmo Giuliano, l’incremento dello spaccio a Forcella dopo la brevissima fiammata di legalità seguita alla morte di Annalisa Durante e la sostanziale resa del cardinale Sepe su Forcella non erano notizie che meritavano di essere portate all’attenzione dell’opinione pubblica.
Nelle venti pagine della sentenza, depositata il 16 luglio, il giudice Spagna ripercorre tutti i passaggi delle minacce, utilizzando anche l’approfondito lavoro di indagine svolto per l’omicidio di Annalisa Durante, e mette in grande rilievo il ruolo svolto dal sacerdote e dal cronista.
“A fare luce sul delitto, - scrive il magistrato – sulle cause remote dell’omicidio e del degrado del rione Forcella, accanto all’opera di denuncia e sensibilizzazione dell’opinione pubblica da parte della chiesa (quella parrocchiale, non già le alte sfere della curia napoletana), si è detto, si schierò la libera stampa, che faceva capo a una testata minore, per mano di un cronista che ha fatto della vicenda una sua questione personale, portando avanti l’opera di informazione nonostante i pericoli insiti a tale compito, visto lo spessore delle famiglie coinvolte e il contesto ambientale, ad altissima densità criminale”.