Una denuncia troppo scottante

FRANCESCA PILLA. Napoletana, trentacinque anni, una laurea in Scienze politiche all’Istituto universitario Orientale, ha cominciato a scrivere al quotidiano La Verità. Dal 2001 è al manifesto, prima collaboratrice, poi redattrice. Dal marzo del 2004 ha diretto, in tandem con Flaviano De Luca della redazione centrale, Metrovie, l’inserto settimanale del manifesto che ha chiuso nel luglio del 2006.  


Francesca Pilla



Non sappiamo perché Giancarlo Siani, giornalista “a tempo” del Mattino, sia stato ucciso 25 anni fa a soli 26 anni. È vero c’è una sentenza della Cassazione del 2001 che ha confermato la pena all’ergastolo per i mandanti Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante, per gli esecutori Ciro Cappuccio e Armando Del Core nonché per i “complici” Cataldo, Donnarumma e Iacolare, ma è una decisione arrivata dopo anni di depistaggio al lavoro investigativo, dopo due buchi nell’acqua da parte della magistratura e con una motivazione che probabilmente semplifica troppo lo scenario in cui avvenne


Summit di camorristi a Marano per decidere l'omicidio Siani (dal film)

l’omicidio. Secondo la sentenza, la condanna a morte del giornalista sarebbe stata decisa a causa di un articolo pubblicato il 10 giugno del 1985, nel quale Siani in sintesi affermava che l’arresto del boss Valentino Gionta

sarebbe stato “il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di Nuova Famiglia, i Bardellino”. Siani avrebbe quindi tacciato “d’infamità” il clan di Torre Annunziata, commettendo uno “sgarro” da pagare con la vita. Non ci sarebbe niente altro. Non esisterebbe nessun libro d’inchiesta sui retroscena dei rapporti tra camorra e politica a Torre Annunziata che il giovane giornalista intendeva pubblicare insieme ad Antonio Irlaldo, corrispondente dell’Ansa dal paese vesuviano e suo intimo amico. Non ci sarebbe la complicità nell’assassinio del clan Giuliano di Forcella, che all’epoca doveva stringere un’alleanza con gli stessi Nuvoletta. Ma soprattutto non ci sarebbe nessuna partecipazione degli ambienti politico-giornalistici con i mandanti dell’assassinio avvenuto il 23 settembre del 1985, alle 22, nella centralissima piazza Leonardo.
Il primo giornalista morto per mano della camorra a Napoli è stato dunque ucciso a causa di una articolo in cui delineava una tesi fantasiosa, mai

confermata dagli inquirenti, sull’arresto di Gionta. Siani non sapeva nulla di più – quello che lasciava trasparire tra le righe, il non detto dei suoi articoli (le connivenze camorristiche negli appalti pubblici, l’accordo tra camorra e amministrazione sui traffici leciti e illeciti, i nomi che non ha mai scritto) sono solo leggende.
Maurizio Fiume non la pensa così, ed è in buona compagnia insieme con diversi giornalisti, gli amici di Giancarlo e anche alcuni magistrati che non accettano la semplificazione degli accadimenti degli anni ‘80. Fiume ha


Guglielmo e Carmine Giuliano

girato un bel film, E io ti seguo, per far rivivere al paese l’intera vicenda. Le troppe zone d’ombra, gli interrogativi cui non si è mai trovata risposta, il clima di isolamento che all’epoca Siani viveva nella sua redazione del Mattino, la sciatteria con cui qualche poliziotto amico ha trattato il suo grido di paura in seguito alle minacce ricevute, la tensione che provava il giovane e la forza che lo spronava ad andare avanti, la relazione con i giudici di Torre Annunziata, lo stretto rapporto con Amato Lamberti e il suo lavoro all’Osservatorio sulla camorra. Il film, non a caso, non ha mai ottenuto una distribuzione adeguata, non è mai stato proiettato nelle sale, mentre ha suscitato l’opposizione della redazione del Mattino che si è sentita mal rappresentata dalla pellicola.
Pare che questo film sia una denuncia troppo scottante per quella parte della nostra regione che non riesce a fare i conti con il passato. Anche se il regista racconta quello che in molti già conoscono, come le raccomandazioni politiche


Amato Lamberti

per farsi strada nel mondo dell’informazione “che conta”, o i rapporti non sempre limpidi tra istituzioni e malaffare. Anche se alla fine in certi passaggi non c’è nemmeno una marcata contestualizzazione storica, la denuncia resta velata e il regista lascia molto all’immaginario dello spettatore. Per il mercato cinematografico evidentemente si

tratta di una pellicola “sovversiva”, troppo rischiosa e poco appetibile. Il lavoro di Fiume è destinato a circolare esclusivamente nei festival e nelle iniziative di nicchia? Che peccato, che spreco. Forse però è anche un merito aver trovato un punto di rottura tra quanto accaduto, quanto deliberato e la verità. Allora varrebbe la pena di sostenerlo con più convinzione.

Francesca Pilla