Circolo stampa, perché
rinunciare a 4 milioni?

IL PROSSIMO 20 maggio compie cinque anni la sentenza con la quale la terza sezione civile della Corte di cassazione (presidente Francesco Trifone e consigliere relatore Franco De Stefano) ha confermato la decisione della Corte d’appello di Napoli (Alessandro Cocchiara consigliere relatore) e condannato l’Associazione napoletana della stampa a versare al comune di Napoli oltre tre milioni e mezzo di euro per differenza canoni e ritardato rilascio della Casina del boschetto in villa comunale che ospitava il sindacato e l’Ordine dei giornalisti.
Va ricordato a chi ha poca memoria che nel 1985 l’Assostampa per un immobile a via Caracciolo di 3.500 metri quadri, di cui 1.300 coperti

e 2.200 scoperti, versava al comune di Napoli un canone mensile di 130mila lire, per la precisione 129.931.
Nel 1987 i dirigenti del sindacato subaffittarono all’imprenditore Antonio Campajola, titolare della srl Villa Scipione, una parte

Antonio Campajola e Stafano Cianci

dei locali della Casina con un contratto di nove anni che prevedeva la ristrutturazione dell’immobile e la sostituzione degli arredi (con un costo di centinaia e centinaia di milioni), un canone di dieci milioni al mese da rivalutare dopo tre anni, il pagamento aggiuntivo di mezzo milione per ogni manifestazione organizzata al circolo, oltre prezzi scontati per gli associati e i loro familiari per i servizi di bar e ristorante. Poteva bastare ma non per il gruppo che guidava gli organismi dei giornalisti campani: “all’atto della sottoscrizione del contrattoscrive il giudice nella sentenza d’appello – la Villa Scipione versò all’Associazione napoletana della stampa 200 milioni di lire che quest’ultima si impegnò a restituire nel giro di 48 mesi, ma non vi è prova della restituzione, come non v’è prova di quanto nell’intero rapporto sia stato corrisposto per l’uso giornaliero dei locali di rappresentanza”. Dunque molte centinaia di milioni di lire scomparse nel nulla.
Torniamo alla Cassazione. Nell’autunno successivo alla sentenza il professore Stefano Cianci, legale della società di Alfredo Romeo che gestiva gli immobili di proprietà del comune, d’intesa con Fabio Ferrari, responsabile dell’avvocatura di palazzo San Giacomo, avvia le procedure per l’incasso: notifica, precetto e pignoramento. Ma nella sede dell’Assostampa l’ufficiale giudiziario trova beni di modesto valore. Allora Cianci imbocca la strada dei pignoramenti delle somme, 190mila euro l’anno, che l’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, e la

Mimmo Annunziata e Checco Zalone

Casagit, la cassa autonoma di assistenza sanitaria integrativa, versano ogni anno al sindacato napoletano così come a tutti le associazioni regionali e alla Federazione della stampa.
Per i dirigenti nazionali dei giornalisti è una

bomba. Fino a quel momento si erano disinteressati della vicenda come se il pasticciaccio brutto della Casina del boschetto, che a Roma conoscevano molto bene, riguardasse soltanto i napoletani ma l’arrivo degli ufficiali giudiziari alle casse nazionali rischiava di causare un bagno plurimilionario. La reazione è immediata. Vengono chiamati a Roma i dirigenti del sindacato napoletano, a cominciare dal presidente Enzo Colimoro in carica dal 2007, per dare loro un ordine secco: l’associazione va subito sciolta; intanto i vertici della Fnsi nel giro di pochi giorni convocano il consiglio nazionale che, con un provvedimento senza precedenti, decide con 44 voti favorevoli, un astenuto e nessun contrario la radiazione dell’Associazione napoletana della stampa fondata nel 1912.
Il taglio immediato del cordone con il sindacato partenopeo produce gli effetti voluti: il professore Cianci si vede assegnare dalla magistratura capitolina soltanto un assegno di 5.500 euro, un’inezia rispetto ai tre milioni e mezzo (lievitati negli anni a quasi quattro milioni) che non copre neanche le spese legali. Poi deve farsi da parte perché c’è un contenzioso tra il comune e la Romeo e nella primavera gira agli uffici di palazzo San Giacomo tutto il lavoro già svolto per i passaggi successivi. Qui cala una nebbia fitta perché non si hanno notizie di nuove iniziative.
Perché il comune lascia scorrere il tempo senza fare niente e rende così sempre più problematico il tentativo di incassare i quattro milioni di euro? C’è qualche motivo oscuro e segreto? A più riprese Iustitia ha provato a girare le domande al sindaco Luigi De Magistris. Questa la cronaca delle sue risposte.
Siamo al 17 novembre del 2015 e il sindaco è al Borgo Orefici per cambiare il nome della via intitolata a Gaetano Azzariti, il magistrato e giurista presidente del Tribunale della razza, in via Luciana Pacifici,

la bambina ebrea morta a otto mesi durante la deportazione da Milano ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau.
Il direttore di Iustitia si avvicina al sindaco per avere notizie sulla vicenda della Casina.
De Magistris è molto

Michele Oricchio e Michael Sciascia

cortese e veste i panni di Checco Zalone: “Cado dalle nuvole. Non ne so assolutamente nulla”. Chiama il fedele addetto stampa, Mimmo Annunziata, e gli dice perentorio: “Informati e fammi sapere”. È perentorio ma non riesce a essere convincente perché passano i mesi e non arriva nessuna notizia.
Il secondo tentativo viene fatto il 17 luglio scorso a Palazzo Caracciolo dove viene presentata la Guida dei ristoranti campani 2018 edita da Repubblica. Solita domanda e uguale risposta: “non ho novità”. Poi la consueta convocazione dell’ombra Annunziata il quale assicura che cercherà di avere notizie.
Terza e ultima puntata. Il 16 febbraio a Castel dell’Ovo, con le relazioni del presidente Michael Sciascia e del procuratore regionale Michele Oricchio, viene inaugurato l’anno giudiziario 2018 della sezione campana della Corte dei conti. De Magistris arriva e si dirige al banco del buffet per bere un caffè. Subito dopo gli si avvicina il direttore di Iustitia e chiede se ci sono novità sulla Casina. Questa volta non è cortese: “non ne so niente; la questione riguarda gli avvocati. E ora, se non le dispiace, devo salutare le autorità”.
E il sindaco fa bene ad andare a salutare Sciascia e Oricchio perché, se a furia di rinvii quando il comune si muoverà non troverà niente, la magistratura contabile potrebbe chiedergli conto della sua inerzia.