Il giudice Viparelli
querela L'espresso

II GIUDICE DEL tribunale di Napoli Fabio Viparelli ha querelato il giornalista Marco Lillo, autore dell’inchiesta ‘Giustizia in vendita’ pubblicata l’otto settembre dall’Espresso, e il direttore del settimanale Daniela Hamaui. La querela per diffamazione è stata depositata il 28 settembre alla procura di

Roma dal legale di Viparelli, l’avvocato Giuseppe Fusco.
Al centro delle sei pagine dell’inchiesta le intercettazioni effettuate dai carabinieri del Nucleo operativo di Roma, pilastro delle indagini condotte dall’aggiunto Italo Ormanni e dai pm


Luigi Giuliano, Francesco Maglione e Salvatore Sbrizzi

Roberto Cavallone e Diana De Martino della procura capitolina. Nel mirino, secondo L’espresso, quattro magistrati: “Giampaolo Cariello, presidente dell’ottava sezione del tribunale del riesame di Napoli, il pm Salvatore Sbrizzi (consulente negli ultimi anni della commissione parlamentare Telekom Serbia), il gip (ex, ndr) Fabio Viparelli e, in una posizione più defilata, il giudice Angelo Di Salvo”.
L’accusa, per i primi tre, è aver preso soldi versati agli avvocati dai camorristi, in particolare da Luigi Giuliano, ex re di Forcella, ora pentito. “Tra i legali indagati, – scrive l’Espresso – oltre all’ex presidente della camera penale partenopea Antonio Briganti ci sono anche l’ex deputato liberale Alfonso Martucci e il difensore storico della famiglia Giuliano Francesco Maglione”. Ma il boss di Forcella tira in ballo anche un altro suo legale, Anyo Arcella, ucciso dalla camorra nel 1996.
Nel frullatore dell’inchiesta Marco Lillo, trentasei anni, da otto giornalista professionista, mette insieme reati gravissimi e vicende minori, con una spruzzata di inesattezze, come quando scrive che il giudice Nicola Quatrano avrebbe chiesto all’avvocato Briganti di prendere a studio uno dei suoi figli,


Napoli, 18 dicembre 1996. L'esecuzione dell'avvocato Anyo Arcella

notizia certamente sbagliata perché il primo dei figli di Quatrano studia Scienze Politiche e il secondo ha superato in estate l’esame di maturità. Ne viene fuori un minestrone in cui

si diluiscono e perdono centralità episodi clamorosi che, se confermati, dimostrerebbero l’esistenza di una ragnatela di interessi e affari che vede esponenti della magistratura e dell’avvocatura napoletana legati ai vertici dei clan, secondo una linea di continuità con le vicende di Castelcapuano degli anni ottanta e primi novanta.
Nella querela Viparelli, presidente del collegio B della undicesima sezione penale del tribunale di Napoli, ricostruisce tutti i passaggi dell’inchiesta dell’Espresso che lo riguardano a cominciare dal suo profilo: “Veste casual e ha fama di garantista a 24 carati. Ha annullato tante ordinanze di arresto nella sua carriera bocciando il lavoro della procura”.
Cita poi un virgolettato attribuibile ai carabinieri “davvero sorprendente”. “Il giornalista – scrive Viparelli nella querela – si chiede ‘che credibilità hanno le rivelazioni dei pentiti’, aggiungendo che ‘per appurarlo i carabinieri hanno studiato per mesi le carte impolverate scoprendo che ‘le dichiarazioni di Giuliano trovano riscontro nei fatti giudiziari’. Le decisioni di Viparelli ‘costituiscono una palese agevolazione giudiziaria in alcuni casi davvero sorprendente’.”
Ma, continua il giudice napoletano, “la più grave diffamazione a mio danno è sicuramente costituita dall’aver riportato, senza alcuna riserva e senza alcuna

previa doverosa verifica (come è obbligo del giornalista), le dichiarazioni virgolettate di Giuliano che parla di una somma di un miliardo e mezzo a me destinata tramite gli avvocati Arcella e Maglione: è pacifico che per costante giurisprudenza non esiste


Antonio Briganti, Giuseppe Fusco e Nicola Quatrano

per il giornalista fonte privilegiata (neppure una informativa dei carabinieri e ancor meno quella ricollegabile a dichiarazioni di un pentito); per cui prima di pubblicare quelle dichiarazioni era necessaria una accurata indagine sulla loro attendibilità, quanto meno secondo un criterio probabilistico e, comunque, il giornalista non avrebbe dovuto accreditarla come unica fonte di verità”.