Cirillo, Alemi vince ancora
contro gli eredi di Lancuba

CON IL PAGAMENTO delle parcelle agli avvocati si è, forse, chiusa la lunga querelle che ha visto contrapposti da un lato Carlo Alemi, negli anni del rapimento Cirillo giudice istruttore e oggi presidente del tribunale di Napoli, dall’altra Armando Cono Lancuba, negli anni ottanta uomo chiave della procura di Napoli, e, dopo la scomparsa del magistrato nel gennaio 2001, i suoi eredi.
L’ultima contesa è stata su un articolo del 2 aprile 1993 firmato da Piero Melati, pubblicato dal quotidiano allora diretto da Eugenio Scalfari;

l’occhiello è “Affari e misteri”, il titolo “Cirillo e De Martino due casi da riaprire”. Alemi e Lancuba si sono occupati con ruoli e peso diversi sia del rapimento del figlio del senatore Francesco De Martino, Guido (5 aprile 1977) che del rapimento di Ciro Cirillo (27 aprile


Francesco De Martino, Pasquale Galasso e Eugenio Scalfari

1981), ma è nella complicatissima vicenda dell’allora assessore regionale democristiano (con protagonisti le Brigate rosse e la camorra di Raffaele Cutolo, i servizi segreti e gli uomini della politica, le forze dell’ordine e gli imprenditori) che hanno entrambi un ruolo da protagonisti. Alemi lavora in tutte le direzioni e incontra sulla sua strada politici dc di primissima grandezza (Gava, Scotti e anche De Mita); Lancuba è invece allineato alle tesi del suo capo, il procuratore Alfredo Sant’Elia, secondo il quale “se” nelle trattative con camorra e Brigate Rosse per ottenere la liberazione di Cirillo c’è stato anche un interessamento degli esponenti politici, questo interessamento “si è mantenuto nei limiti del lecito e del possibile”.
Lo scontro durissimo arriva sui giornali, con l’ammiraglia dell’informazione campana, il Mattino diretto da Pasquale Nonno, schierato sulle posizioni della procura. Da via Chiatamone vengono sparate su Alemi bordate terrificanti, come il fondo firmato dal direttore il 31 luglio 1988 a commento dell’ordinanza del giudice istruttore depositata tre giorni prima, che chiude


Ciriaco De Mita, Antonio Gava e Alfredo Sant'Elia

sette anni di indagini; il titolo è “Diffamazione a mezzo giudice”. Ne scaturiscono querele di Alemi per il fondo e di Scotti contro Alemi.
E veniamo all’articolo di Melati dell’aprile 1993.
Si pente il boss di Poggiomarino Pasquale Galasso e squarcia la tela

che negli anni ottanta copriva la corruzione a Castelcapuano; per i giudici di Salerno, cui è affidata l’inchiesta, tra i coinvolti c’è Lancuba e Melati va a intervistare Alemi.
Nell'articolo il cronista chiede a Alemi se davvero qualcuno frenava le indagini e il giudice risponde: “Uno dei nomi usciti finora (dall’inchiesta dei giudici di Salerno, ndr) si occupava del caso Cirillo”, e aggiunge: “non ho detto nulla. Ho solo fatto una constatazione obiettiva”. Il giornalista insiste: “Ma lei in che condizioni ha lavorato?” Alemi risponde "Il giudice istruttore, che ero io, lavorava. La Procura, ufficio della pubblica accusa, proscioglieva". Melati incalza per sapere se il caso Cirillo risulta più chiaro (dopo le rivelazioni di Galasso, ndr). Telegrafica la replica: "A me era risultato chiaro anche allora".
L’articolo del quotidiano romano non piace a Lancuba: nel marzo ’95 cita in giudizio Melati, il direttore Scalfari e il giudice Alemi, che però escono indenni dal processo di primo grado. Infatti il tribunale di Roma nell’ottobre 2003

rigetta la richiesta di risarcimento danni avanzata da Lancuba, che nel luglio 2000 viene condannato dal tribunale di Salerno a otto anni di reclusione per associazione camorristica, corruzione e calunnia e sei mesi dopo muore.
Contro la sentenza del


Raffaele Cutolo, Achille Janes Carratù e Pasquale Nonno

tribunale capitolino hanno presentato appello i familiari di Lancuba: la moglie Rita Negri e i figli Ginevra, Giuseppe e Renato, assistiti dagli avvocati Gabriele Pafundi e Raffaele De Bonis, mentre la difesa di Melati e Scalfari viene affidata a Vittorio Ripa di Meana e Luca Silvagni e Alemi è assistito da Lucio Nicolais e Achille Janes Carratù.
Il 22 maggio scorso, con deposito il 18 giugno, la corte (presidente Riccardo Redivo e giudici a latere Massimo Crescenzi, relatore, e Lucio Bochicchio) rigetta l’appello degli eredi di Lancuba e li condanna al pagamento di oltre undicimila euro di spese processuali.