Assolto Carlo Alemi,
non diffamò Lancuba
NEI TORBIDI ANNI ottanta Armando Cono Lancuba e Carlo Alemi furono, da sponde opposte, protagonisti delle indagini sul rapimento di Ciro Cirillo: il primo, pm ascoltato e potente capo dell'Ufficio denunce della procura di Napoli, guidata dai procuratori Francesco Cedrangolo e Alfredo Sant'Elia; il secondo, giudice istruttore incaricato del caso.
Cirillo era l'assessore all'Urbanistica della Regione Campania rapito dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981 (il commando dei terroristi uccise l'autista Mario Cancello e il brigadiere Luigi Carbone e gambizzò il segretario di
Cirillo, Ciro Fiorillo) e liberato il 25 luglio 1981, grazie alla mediazione del boss Raffaele Cutolo.
Contrapposte le posizioni dei due magistrati sulle trattative per il rilascio dell'esponente scudocrociato, fedelissimo del ministro Antonio Gava; Lancuba, e il

Carlo Alemi, Raffaele Cutolo e Antonio Gava
procuratore Sant'Elia, sostenevano che, "se" c'era stato un interessamento da parte dei politici, si era "mantenuto nei limiti del lecito e del possibile"; Alemi, dopo sette anni di indagini, il 28 luglio1988 depositava un'ordinanza di 1534 pagine che raccontava minuziosamente "l'intreccio, come scriveva l'Unità, tra Dc 'gaviana', camorra, servizi segreti nel quale è maturata quella 'sceneggiata' tragicissima e grottesca che va sotto il nome di affare Cirillo".
Le 1534 pagine costano ad Alemi un attacco ad alzo zero di Ciriaco De Mita (dopo il deposito dell'ordinanza l'allora presidente del consiglio dirà che Alemi "si è posto fuori dal circuito costituzionale") e un procedimento disciplinare promosso dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, concluso con un'archiviazione.
La contrapposizione tra Alemi e Lancuba continua sulle pagine dei quotidiani: nel settembre del 1988 l'Unità, diretto da Massimo D'Alema, pubblica in un volumetto, curato da Vincenzo Vasile e allegato al giornale, stralci dell'ordinanza di Alemi, con prefazione di Luciano Violante; a stretto giro, replica il Mattino, diretto da Pasquale Nonno, che mette in pagina ampi brani della requisitoria redatta dai pm della procura di Napoli, tra cui Lancuba, che nella sostanza 'assolveva' i politici dc.
L'ultima puntata della contrapposizione arriva nei primi giorni d'aprile del 1994; un mese prima Lancuba, che da tre anni ha lasciato Castel Capuano ed è procuratore capo a Melfi, è stato arrestato su ordine dei magistrati di

Francesco Cedrangolo, Alfredo Sant'Elia e Giuliano Vassalli
Salerno per associazione a delinquere di stampo mafioso e calunnia. Il cronista di Repubblica Pietro Melati mette insieme alcune dichiarazioni del giudice Alemi sulle vicende giudiziarie più controverse degli ultimi anni. Il titolo dell'articolo è "Cirillo e De
Martino (il riferimento è al rapimento di Guido, figlio dell'ex segretario del Psi Francesco, ndr) due casi da riaprire", preceduto da una testatina "Affari e misteri" e chiuso da un sommario: "Armando Cono Lancuba, uno dei due magistrati napoletani messi sotto inchiesta fu pm in entrambe le inchieste. Con quali risultati? Risponde Carlo Alemi, giudice istruttore per il rapimento dell'esponente dc".
Per l'articolo ritenuto diffamatorio Lancuba, assistito dagli avvocati Gabriele Pafundi e Raffaele De Bonis, il 23 marzo 1995 presenta al tribunale di Roma una richiesta di risarcimento danni di 500 milioni contro il giudice Carlo Alemi, il giornalista Pietro Melati e l'allora direttore di Repubblica Eugenio Scalfari.
Intanto la situazione di Lancuba precipita: il 31 gennaio 1996 viene rinviato a giudizio, sei mesi dopo inizia il processo davanti alla terza sezione penale del tribunale di Salerno (presidente Giovanni Pentagallo, giudici a latere Dionigio Verasani e Attilio Orio); il 19 luglio del 2000 è condannato a otto anni di carcere per associazione camorristica, corruzione e calunnia, con 537 pagine di motivazione che verranno depositate il 19 gennaio 2001 (ma i quotidiani partenopei ignoreranno il lavoro dei giudici salernitani).
L'ex procuratore di Melfi non si rassegna, ritiene ingiusta la sentenza, annuncia che presenterà appello, ma il 9 gennaio 2001 muore.
In secondo grado ricorrono gli eredi, la moglie e i tre figli, chiedendo di riaprire l'istruttoria dibattimentale, ma la corte d'appello di Salerno emette una sentenza di "improcedibilità per estinzione del reato per morte del reo".
Ma torniamo alla citazione contro Alemi, difeso dagli avvocati Achille Janes Carratù e Lucio Nicolais, e contro Melati e Scalfari, assistiti dagli avvocati Vittorio Ripa di Meana e Carlo Molaioli, presentata da Lancuba e poi ripresa dagli eredi, la moglie Rita
Francesco De Martino, Ciriaco De Mita e Eugenio Scalfari
Negri e i figli Ginevra, Giuseppe e Renato. L'otto gennaio 2004 il giudice Maurizio Fausti della quinta sezione civile del tribunale di Roma ha depositato la sentenza, che contiene diverse imprecisioni: è sbagliata la data dell'articolo di Repubblica oggetto della citazione; si scrive di "collisioni", ma è del tutto evidente che si pensa a "collusioni"; si parla della "procura di Melfi" in riferimento al caso Cirillo, ma Lancuba è andato alla procura lucana dieci anni dopo il rapimento Cirillo.
In ogni caso, al di là delle inesattezze, dalla sentenza emerge con chiarezza perché secondo il giudice "non risulta l'illeceità dell'articolo censurato". "Il quotidiano 'La Repubblica' - scrive Fausti - all'epoca dei fatti (inchiesta avviata nell'ottobre '93 dalla Procura Generale di Salerno sulle collisioni tra il clan camorristico ed esponenti della politica e della magistratura) dedicando ampio spazio ai fatti in esame, divulgava una serie di articoli volti ad informare i lettori sugli sviluppi dell'inchiesta salernitana. Ciò stante, nella fattispecie, risulta che il giornalista Melati non ha fatto altro che sintetizzare i sospetti e i malumori che l'Alemi (dall'ottobre '98 presidente del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ndr) - senza rilasciare un'intervista allo stesso giornalista - aveva già reso di dominio pubblico tanto da provocare l'intervento di esponenti politici e del massimo organo della magistratura italiana. Nella specie di causa, risulta che il giornalista Melati con l'articolo in esame si è limitato a esercitare il proprio diritto di informare la collettività sui fatti di incontestato rilievo e, per ciò, prive di contenuto diffamatorio in quanto nella sostanza rispondente al vero".
"Conseguentemente, - continua Fausti - risulta l'inesistenza del carattere chiaramente offensivo dell'onore e della reputazione del 'de cuius' Lancuba nell'articolo giornalistico in questione, in quanto, nel caso di specie, ricorrono

Massimo D'Alema, Pasquale Nonno e Luciano Violante
le condizioni che giustificano il diritto di cronaca anche se lede l'altrui reputazione e cioè, la verità della notizia pubblicata, il pubblico interesse alla conoscenza dei fatti narrati ed il rispetto dei limiti dell'obiettività e serenità dell'esposizione".
Perciò il giudice rigetta la richiesta della moglie e dei figli di Lancuba "siccome infondata in fatto e in diritto e, comunque, non provata; e per l'effetto, dichiara insussistente nella presente causa la dedotta diffamazione, trattandosi di legittimo esercizio del diritto di cronaca. Le spese di lite sono equamente compensate tra le parti".
Vicenda quindi definitivamente chiusa? No, perché i familiari di Lancuba hanno già annunciato che presenteranno appello.