Tre, sette, asso

Caro Cozzolino, leggo oggi sul tuo sito la citazione di un mio pezzo su Repubblica, a presentazione di "Dama di picche" al San Carlo, mesi fa; dove dici, tu ipse, "non si capisce niente", e su questo sei certo il miglior giudice di te stesso. Però, sulla precisione, mi dispiace, continui a "non capire".
1) l' edizione della "Dama" del 1963 fu rappresentata  - ed io la ricordo, perché ero appena diventato spettatore "adulto"- in forma ridotta, amputata di parti essenziali. Dunque non è da considerare un "precedente", tanto per usare il linguaggio della Iustitia.
2) Quanto alla "try carty" che vengono evocate ossessivamente dal protagonista, studia il libretto, sennò anche le tue soffiate giudiziarie... "....Donna (di picche)", è proprio la carta che esce al posto del previsto "Asso" della formula diabolica, per fregare il protagonista! Ed i puntini sospensivi utilizzati stanno proprio a raccontare al lettore, di te più esperto in Ciaikovskij, la suspense del dramma al momento di scoprirla, e l'inatteso "scartiloffio", 'na carta pè n'ata, come a Forcella dove pure si gioca(va) a "Try Carty".  Sinnò er titolo che cazzo c'entrava!

13 luglio 2005 Gianni Caroli

p.s. ai sensi della legge per la stampa eccetera eccetera



Il 18 gennaio scorso va in scena al San Carlo ‘La dama di picche’ di Pëtr Il’ic Cajkovskij, con la direzione di Jerzy Semkov, interpreti Robert Brubaker, Olga Guryakova e Raina Kabaivanska.
Il giorno prima il Mattino, nelle pagine di Cultura e Spettacoli curate da Titta Fiore, presenta l’opera con grande rilievo: titolo: “Una dama di picche che vi stupirà”; catenaccio: “Semkov nel segno di Cajkovkij”; sommario: Domani il debutto dell’opera eseguita a Napoli solo una volta nel ’63, dal Teatro di Zagabria / Allestimento del Covent Garden nel cast Raina Kabaivanska”. L’autrice dell’articolo è Donatella Longobardi.
Repubblica Napoli esce il giorno della prima. Giustino Fabrizio, o qualcuno del desk (allora formato da Sarno, Rasulo, Scotti, Ragone e Marino), decide di affidare l’articolo non al critico musicale del giornale, Sandro Compagnone, né alla redattrice della Cultura, Stella Cervasio, ma a un collaboratore, Gianni Caroli, che scrive un pezzo (leggete e giudicate; e l'invito vale anche per il desk di Repubblica) per molti versi poco comprensibile. Alla presentazione di Caroli Iustitia dedica una nota, firmata da Josef K. Byte, pubblicata sul numero del 7 febbraio scorso.
Dopo cinque mesi, il 13 luglio, Caroli scrive a Iustitia per puntualizzare alcuni passaggi della nota, ai quali replica Josef K. Byte. Resta soltanto da osservare che per una lettera che aspira ad essere spiritosa, il richiamo conclusivo, peraltro del tutto fuori luogo, alla legge sulla stampa è una nota stonata.

  Nello Cozzolino



Sono andato a rileggere il pezzo di Caroli, uscito su Repubblica il 18 gennaio, e devo purtroppo confermare le mie osservazioni, a cominciare da quella sull’incomprensibilità del testo: a meno che quella prosa ermetica – l’italianorum dotto, le citazioni trasversali, le allusioni iniziatiche, gli ammiccamenti colti, esibiti per impressionare il compagno di banco e sgomentare il desk – non sia che l’”oplà” finale di un’acrobazia che però mi sfugge.
Ma se non capisco quel che scrive Caroli, Caroli finge di non capire quel che scrivo io. Perché mai l’edizione di un’opera con amputazioni non dev’essere considerata un “precedente”? La “Dama di Picche” compare regolarmente nel cartellone della stagione 1962-1963, come Caroli può verificare a pagina 737 della cronologia del San Carlo edita da Guida. Fu rappresentata in croato, e non in russo, perché i complessi artistici erano quelli del Teatro Nazionale di Zagabria. Dev’essere stato questo a infastidire il giovane Caroli, che all’epoca masticava appena il croato; perché, da quel profondo conoscitore che è, sa bene che tutta la storia dell’opera è piena di tagli, riaperture, arie soppresse, cabalette espunte, secondo la scelta del direttore (e le esigenze dei cantanti).
Le “tre carte”. Caroli mi dice di studiare il libretto. Bene: diamogli una ripassata insieme. Nel terzo atto compare a Hermann il fantasma della Contessa, che gli rivela le tre carte vincenti: “Tre…sette…asso”. Hermann ripete (la didascalia dice: “come un folle”), “tre…sette…asso”. Nel successivo duetto con Liza, continua a vaneggiare, e si vanta di aver strappato “il segreto del tre, del sette, dell’asso!”. Alla fine viene fregato, perché invece dell’asso esce la dama di picche (ecco “che cazzo c’entra” il titolo). Ma Caroli scrive che “tre ‘arcane parole ognor’ improntano il dramma: ‘Tre…sette…donna’ (di Picche, ahimé), formula magica, abracadabra esiziale, apotropaico ‘mantra’ rivelato beffardamente a scongiurare la Verità fatale, continuamente e ossessivamente evocato dal protagonista-dannato”. Se formula magica c’è, se abracadabra compare, se mantra s’intona, “continuamente e ossessivamente”, è il tris che si presume vincente, e non lo “scartiloffio” finale: non si capirebbe come il protagonista possa evocare, e a maggior ragione per “scongiurare la Verità fatale”, non il presunto tris magico, ma quello che lo sconfigge in modo così inatteso. Non si tratta di essere più o meno “esperti” di Ciaikovskij, ma di dare un senso a quel che si scrive, anche se è poco chic. E lasciamo perdere la legge sulla stampa, tirata in ballo, anch’essa, a sproposito.


  Josef K. Byte
 
Gianni Caroli
Robert Brubaker
Olga Guryakova
Raina Kabaivanska
Titta Fiore
Donatella Longobardi
Giustino Fabrizio
Ottavio Ragone
Giovanni Marino
Sandro Compagnone
Stella Cervasio