Giustino Fabrizio cita Iustitia
e incassa una doppia sconfitta

Questo è un numero speciale perché interamente dedicato a Iustitia,  al suo direttore e a una pesantissima vicenda umana e giudiziaria. E, dopo diciotto mesi lunghi e difficili, il direttore di Iustitia Nello Cozzolino ritiene necessario fare un punto per informare i lettori.

Per Iustitia ci sono ad oggi due piccole, buone notizie: il 7 marzo 2008 il giudice civile del tribunale di Napoli Massimo Pignata ha respinto con un’ordinanza di otto pagine il ricorso d’urgenza presentato da Giustino Fabrizio, responsabile delle pagine napoletane di Repubblica, e da cinque giornalisti che con lui lavorano al desk: il vice Ottavio Ragone, Francesco Rasulo, Edoardo Scotti, Giovanni Marino e Giantomaso De Matteis. Con il ricorso i sei chiedevano al magistrato di ordinare, per tre ‘articoli’ di Iustitia (The fab four di Repubblica; Alimuri, il silenzio di Fabrizio e Orfeo; Una brutta notizia) ritenuti diffamatori, la rimozione dal sito e la cancellazione dall’archivio. Il 5 giugno 2008 la decisione di Pignata è stata confermata, con una motivazione di diciassette pagine, dalla decima sezione civile, presidente Michele Oliva, a latere Rosa Romano Cesareo e Michele Caccese, relatore. È ora necessario un passo indietro per ricapitolare l’intera vicenda.


I "fab four"

Nel pomeriggio dell’undici dicembre 2007 viene messo in rete il numero 40 di Iustitia. In serata Cozzolino riceve una mail dagli avvocati Angelo Peluso, collaboratore delle pagine campane di Repubblica, e Antonella Cangiano, che a nome della “redazione di Napoli de La Repubblica” intimano al direttore di Iustitia di togliere dalla rete una lettera intitolata ‘The fab four di Repubblica’ e annunciano l’avvio di un’azione legale per risarcimento danni.
Nella lettera firmata con lo pseudonimo Monteiro Rossi (è il nome del

protagonista del romanzo ‘Sostiene Pereira’ di Antonio Tabucchi) si parla di tre errori riscontrati nei titoli dell’edizione napoletana di Repubblica, il quotidiano che contende al Corriere della sera la leadership del mercato italiano. Tra gli errori, uno è particolarmente grave: il 19 luglio 2007 a pagina 7 c'è il titolo “Il sindacalista batte l’Avio / Santorelli reintegrato dal Tar”,


19 luglio 2007. La pagina 7 di Repubblica Napoli

quindi il ritorno al lavoro sarebbe stato deciso dal tribunale amministrativo e non dal giudice del lavoro, come correttamente scrive nell’articolo il cronista Roberto Fuccillo. Un errore reso più pesante dal fatto che nel pensatoio della redazione ci sono due ex cronisti di giudiziaria, Ragone e Marino. Per raccontare gli errori, Monteiro Rossi usa toni aspramente ironici e paragona i quattro del desk ai Beatles, il 'favoloso' quartetto di Liverpool.
Il direttore di Iustitia, dopo aver controllato che gli errori segnalati erano stati effettivamente pubblicati, li certifica inserendo, tra i documenti del numero 40, le pagine di Repubblica Napoli citate nella lettera di Monteiro Rossi.
Da notare che dallo studio Peluso – Cangiano non arriva a Iustitia una richiesta di rettifica, passaggio che in alcuni dei progetti di legge sulla diffamazione che dormono in parlamento è ritenuto indispensabile per avviare una richiesta di risarcimento danni, ma soltanto un ordine (“eliminare l'articolo in questione”) e l’annuncio di un’azione giudiziaria.


“L’attacco ingiusto”

Il giorno successivo alla pubblicazione della lettera accade un fatto senza precedenti, almeno per la più che trentennale esperienza del direttore di questo settimanale. Lo raccontiamo con le parole utilizzate nella memoria difensiva dagli avvocati Paolo Emilio Pagano e Paolo de Divitiis, che assistono in giudizio il direttore di Iustitia.
“Il 12 dicembre, alle 13, si tiene la riunione della redazione napoletana di Repubblica, in apertura della quale il direttore Giustino Fabrizio estrae due fogli dalla stampante e li pone sul tavolo, davanti alla redattrice Patrizia


Paolo de Divitiis e Paolo Emilio Pagano

Capua (compagna del dottor Cozzolino), chiedendole se aveva letto quanto ivi riportato (ricevendo risposta negativa), invitandola a farlo e, quindi, pronunciando le seguenti parole: “Ma Nello ti vuole bene, Nello ti vuole bene?  Perché, se

scrive queste cose, non ti vuole bene. Questa è diffamazione, lo sai? Ho già dato mandato all’avvocato di avviare un’azione legale per il risarcimento dei danni e ti assicuro che andrò fino in fondo”.
A tali parole la signora Capua ha replicato, facendo notare che da quando lavora a Repubblica (marzo 1990, ndr), è risaputo che lei non ha nulla a che fare con il lavoro del suo compagno. Al che Fabrizio ha affermato: “Guarda che i casi sono due: la tua è malafede o stupidità. E di questo risponderai al direttore (Ezio Mauro, ndr) e all’azienda (presieduta da Carlo De Benedetti, ndr)”; alla nuova contestazione della signora Capua, che gli fa notare la profonda ingiustizia di quanto da lui detto, il signor Fabrizio conclude: “D’ora in avanti non ti rivolgerò più la parola. E adesso sei pregata di liberarci della tua presenza”, allontanandola così dalla riunione”.
È questo il passaggio che trasforma un’ordinaria vicenda di diffamazione, vera o presunta, in una vicenda che ha dell’incredibile: un redattore capo di Repubblica, responsabile di una redazione regionale, non è importante se offeso, imbufalito, ferito dalla 'diffamazione' subita, per una lettera pubblicata da un giornale on line, attacca in maniera ingiusta e violenta una redattrice che ha la sua stessa anzianità anagrafica e ordinistica, una vita professionale spesa con dieci anni di manifesto e diciotto di Repubblica (al dicembre 2007), una lunga e intensa attività sindacale con quattro anni di comitato di redazione nazionale di Repubblica, quattro da fiduciario della sede partenopea e dodici

anni da consigliere della Federazione nazionale della stampa, dal congresso di Villasimius del maggio '96 al congresso di Castellaneta del novembre 2007.
C'è allora da domandarsi: che cosa sta 'chiedendo' Giustino Fabrizio a Patrizia Capua? Che


Carlo De Benedetti e Ezio Mauro

impedisca al suo compagno di svolgere come meglio crede la sua attività giornalistica, con la piena consapevolezza di dover rispondere in ogni momento di ciò che scrive e di ciò che, nella veste di direttore responsabile, decide di pubblicare?
Ci sarebbe da sorridere all’idea che una cronista ‘anziana’ di Repubblica debba dare conto “al direttore  e all’azienda” di una lettera di tal Monteiro Rossi pubblicata su un sito di nicchia, specializzato sui media della Campania con saltuarie puntate fuori regione, letto quasi esclusivamente degli operatori dell’informazione. Ci sarebbe da sorridere, se "l’attacco ingiusto" di Fabrizio non avesse avuto riflessi profondi e laceranti su chi l’ha subìto.
Restano da notare due fatti. Il primo. Nella serata dell'undici dicembre Fabrizio ha dato mandato agli avvocati di citare in giudizio Iustitia. E allora perché il giorno successivo scatena “l’attacco ingiusto”?
Il secondo. Nella lettera di Monteiro Rossi, Fabrizio e il suo vice Ragone vengono citati soltanto in maniera incidentale, mentre i riflettori sono concentrati sui quattro del desk. La conferma della citazione solo incidentale di Fabrizio e Ragone è arrivata il primo dicembre 2008. Alla sesta udienza del giudizio contro Iustitia si sono finalmente visti in aula due dei ’diffamati’, Giovanni Marino e Edoardo Scotti. E sia Marino che Scotti davanti al giudice si sono lamentati perché nella lettera di Monteiro gli errori nei titoli venivano attributi in esclusiva ai quattro del desk, glissando sulle responsabilità del capo e del suo vice. Ma se Fabrizio nella lettera pubblicata da Iustitia viene citato solo incidentalmente, quale è la causa vera della sua incredibile reazione?


Una scelta inevitabile

Alle 13 del 12 dicembre c’è la riunione di redazione con l’attacco ingiusto, alle 15,30 Nello Cozzolino chiama il capo di Repubblica Napoli, che conosce da oltre trent’anni, per chiedere un incontro; la segretaria di Fabrizio assicura che richiameranno per concordare l’appuntamento. Alle 18,45 la telefonata da Repubblica non arriva e Cozzolino richiama; Fabrizio gli dice di passare anche subito in redazione. Dopo dieci minuti Cozzolino arriva al giornale e viene accompagnato nella stanza del redattore capo che si alza, gli va incontro e lo accompagna nello stanzone del desk: “Dì quello che mi devi dire davanti ai miei uomini”. Brevissimo l’intervento del direttore di Iustitia: “Se vi siete sentiti offesi dalla lettera è giusto che replichiate nella maniera ritenuta più giusta, anche con un’azione giudiziaria, penale e civile. Ma perchè “l’attacco” a Patrizia Capua?”. La domanda viene ripetuta più volte, Fabrizio farfuglia qualcosa, poi dice: “Qui si fa il gioco delle tre carte, non voglio più parlare” e ritorna velocemente nella sua stanza. Cozzolino resta ancora qualche minuto e


Orazio Cicatelli e Giuseppe Fusco

ripete più volte a Rasulo, Scotti, Marino e De Matteis la stessa domanda. Soltanto i primi due rispondono, ripetendo: “Questa volta hai sbagliato; devi pagare per quello che hai pubblicato”. E Cozzolino: “Se ho sbagliato, e ci sarà un giudice a sancirlo,

risponderò del mio errore. Ma cosa c'entra Patrizia Capua?” Il confronto va avanti per qualche minuto, ma sul perché dell'attacco neanche una parola.
Lasciata la redazione, il direttore di Iustitia va allo studio degli avvocati penalisti che lo assistono, Giuseppe Fusco e Orazio Cicatelli, per far leggere e ottenere l'ok per il testo che ha deciso di pubblicare il giorno successivo sulla prima pagina di Iustitia, con il titolo ‘Una brutta notizia’. Con il box, che per diciotto mesi è stato una presenza inamovibile della home page di Iustitia, Cozzolino informa i lettori che “da oggi (13 dicembre 2007, ndr) Iustitia non si occuperà più di Repubblica Napoli”; poi ricorda la lettera “The fab four” e conclude: “Il dissenso, la disapprovazione, l’indignazione per uno scritto – osserva Cozzolino – si possono esprimere in quattro modi: con una telefonata, con una mail o una lettera di rettifica, con una richiesta di risarcimento danni in sede civile, con una querela. In base alla strada scelta dall’ ‘offeso’, l’autore dello scritto e il direttore del giornale possono replicare e difendersi. Di fronte a iniziative ingiuste indirizzate contro la propria compagna si è invece inermi”.
Al direttore di Iustitia arrivano mail di solidarietà, ma soprattutto lettere e telefonate di ‘protesta’ perché così si rinuncia alla libertà di cronaca e di critica. A tutti Cozzolino spiega che, in quel momento, è l’unica scelta possibile, ma la maggior parte dei lettori non condivide la decisione.


600mila euro

Il 22 dicembre al direttore di Iustitia viene notificata una citazione di Giustino Fabrizio e degli altri cinque giornalisti di Repubblica Napoli: chiedono un risarcimento danni di seicentomila euro, “oltre rivalutazione e interessi dalla data del fatto al conseguente pagamento della somma”; chiedono ancora il “risarcimento di ogni altro danno patrimoniale subito o subendo dagli attori, a

causa del fatto illecito”; chiedono infine il “pagamento delle, competenze e onorari della lite”  e “la pubblicazione della sentenza a spese dei convenuti sulla rivista Iustitia”.
La novità della citazione è che gli articoli diffamatori


Andrea Cozzolino e Marco Demarco

sono diventati tre: con ‘The fab four”, vengono citati da Peluso e Cangiano una seconda lettera pubblicata nello stesso numero di Iustitia, intitolata ‘Alimuri, il silenzio di Fabrizio e Orfeo’, e il box ‘Una brutta notizia’.
Nella lettera su Alimuri il lettore, che utilizza lo pseudonimo Ettore Fanelli, esprime un’opinione giudicando “scandaloso l’accordo firmato a luglio (2007, ndr) a Roma da Rutelli, Bassolino & company per l’abbattimento dell’ecomostro (di Alimuri, ndr), con l’autorizzazione per una ondata di cemento: 18mila metri cubi per un nuovo albergo in una zona già superaffollata come la costiera sorrentina”. E trova altrettanto scandaloso il silenzio sulla vicenda del Mattino e di Repubblica Napoli, la cui linea politico-editoriale gli sembra dissonante dalla linea del giornale nazionale. A conforto della sua opinione Fanelli allega il fondo firmato il 29 luglio 2007 dal direttore Marco Demarco sulla prima pagina del Corriere del Mezzogiorno, quotidiano che sulla questione Alimuri si è speso senza risparmio tirando in ballo uno dei protagonisti  dell’operazione, l’imprenditrice Anna Normale, moglie dell’ex assessore regionale Andrea Cozzolino, uomo di fiducia di Antonio Bassolino.


"La campagna"
Trascorrono venti giorni dalla citazione e Cozzolino riceve la notifica di un ricorso d’urgenza ex articolo 700. Con il ricorso i sei giornalisti chiedono al


31 gennaio 2007. La lettera di Veronica Lario

giudice di ordinare a Cozzolino "di interrompere la campagna diffamatoria già intrapresa con la pubblicazione con gli articoli di cui sopra (le due lettere e la ‘brutta notizia, ndr)”, di ordinare “la rimozione degli articoli”, di ordinare la rimozione dei medesimi articoli anche dall’archivio di Iustitia, di prevedere una sanzione, nella misura da stabilirsi, in caso di inottemperanza. Parafrasando il dizionario Devoto Oli si può definire campagna di stampa “un insieme di operazioni mediatiche organizzate a un determinato fine”. In questo caso ci sono due lettere pubblicate sulla stesso numero del settimanale e un box che dà conto, in termini blandi e sfumati, di un “attacco ingiusto” nei confronti di una persona estranea a Iustitia.

È evidente quindi che parlare di “campagna” di stampa è del tutto fuori luogo. Ma non è questo l’unico passaggio in cui emerge una singolare conoscenza dei giornali o comunque una rappresentazione delle dinamiche dei giornali a dir poco stupefacente. Ne citiamo altri due. Nella memoria per il 700 la difesa di Fabrizio sostiene che ‘Fab four’ e ‘Alimuri’ sono articoli e non lettere “per la collocazione e la veste tipografica”, per poi meglio precisare in udienza che “non si è mai vista una lettera pubblicata in prima pagina”. Chi legge i giornali sa che le lettere in prima pagina ci sono, anche di frequente, e chi legge

Repubblica ricorda bene la lettera di Veronica Lario, pubblicata in prima pagina come apertura del giornale il 31 gennaio 2007,  intitolata: “Veronica Berlusconi: mio marito mi deve pubbliche scuse”. E, venendo a pochi giorni fa, va citato il Corriere della sera che l'undici giugno ha pubblicato in fascia alta di prima pagina una lettera inviata, anche in questo caso, da Veronica Lario, intitolata "Infangate la mia dignità e la mia storia coniugale". C'è da aggiungere che nel reclamo contro la decisione del giudice Pignata, presentato il 4 aprile 2008, i legali di Fabrizio scrivono: “Ma anche per gli altri giornalisti citati non vi è prova che


11 giugno 2009. La lettera di Veronica Lario

abbiano scritto i titoli errati, che spesso vengono scritti dal tipografo, quindi il fatto non è ad esso attribuibile”. 


Il monopattino

Nel dicembre del 1992 Giampaolo Pansa, a Napoli per presentare un libro, vide sul Mattino diretto da Pasquale Nonno un’intera pagina sparata contro un mensile regionale, La Voce della Campania, e commentò: “Prima di oggi soltanto a Sarajevo ho visto i carri armati sparare sulle biciclette”. Nel caso di Iustitia, in considerazione del peso della corazzata Repubblica, possiamo parlare di monopattino più che di bicicletta. E allora guardiamo più da vicino questo monopattino.
Su Repubblica Napoli, tenuta a battesimo da Eugenio Scalfari il 18 aprile del 1990, Cozzolino ha scritto e pubblicato, su vari giornali e da nove anni su Iustitia, centinaia di notizie, articoli, inchieste, lettere e papere. E il settimanale on line non è mai stato tenero quando c’era da segnalare cose che non

andavano. Del resto Iustitia è nato nel febbraio del 2000, come sito di nicchia, per raccontare i movimenti e le novità del mondo dell’informazione in Campania, ma anche per castigare, se possibile sorridendo, sciatteria, svarioni e marchette dei


Pasquale Nonno e Giampaolo Pansa

media regionali. Per quattro anni Iustitia ha pubblicato una rubrica, Papere e papaveri, affidata a un collaboratore, Josef K. Byte, che grazie a una scrittura accurata mista a vetriolo ha svolto con martellante continuità il ruolo di fustigatore. E le Papere del 2000 sono state anche raccolte in un volume che ha ottenuto critiche positive e un buon risultato nelle librerie napoletane.
Per rendere l’idea della scrittura anche tranchant di Byte, cito un solo esempio. Nell’estate del 2004 si decide il futuro del Napoli calcio tra giudici, curatori fallimentari, processi e Figc. Repubblica Napoli riserva, come è giusto, grande spazio alla questione e il 27 agosto fa il punto con una tabella e quattro titoli: Domani torna il processo; 1 settembre consiglio Figc; 12 settembre via alla serie B; Uccisi all’arrivo ad Auschwitz. Alla tabella Byte dedica una lunga nota intitolata Olocausto. Questa la chiusa: “ 'Uccisi all’arrivo ad Auschwitz'. No, questo è troppo: capiamo la delusione dei tifosi azzurri, la voglia di ripartire da zero, di fare piazza pulita degli errori del passato, ma come soluzione, una soluzione finale, ci sembra mostruosa. A meno che, poiché la speranza è l’ultima a morire, non si sia trattato dell’ultima, inspiegabile topica di quei felici redattori svagati, gli unici capaci di confondere un campo di calcio con un campo di concentramento”.     
Dall’aprile 2004, quando si è insediato a Napoli Giustino Fabrizio, Iustitia ha dedicato 46 servizi all’edizione napoletana di Repubblica. Notizie di cronaca, ma anche note critiche, eppure Cozzolino non ha mai ricevuto una rettifica, una protesta, una mail, una lettera, una telefonata, né ha ricevuto una battuta appena piccata quando ha incontrato Fabrizio e i giornalisti del desk che anzi ha più volte intervistato.


Il carro armato

E veniamo al carro armato. Da chi arriva la citazione contro Iustitia, seguita dopo venti giorni dal 700? Chi chiede di cancellare addirittura due lettere e la nota ‘Una brutta notizia’? Da giornalisti di Repubblica Napoli. Certo non è il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e diretto da Ezio Mauro a citare Iustitia (lo si vede anche dai legali in campo, che non sono gli avvocati del giornale), ma siamo comunque di fronte a redattori di quello che insieme al Corriere della sera è il primo quotidiano italiano, il giornale che della libertà di stampa ha fatto una bandiera, che ha rivendicato, sempre e con energia, il diritto di pubblicare notizie anche scomode se sono nell’interesse del lettore e


Giuseppe D'Avanzo e Gennaro Marasca

di esprimere giudizi molto aspri, forti di una libertà sancita dalla Costituzione.
Il 19 gennaio 2005 una delle firma di punta del giornale, Giuseppe D’Avanzo, dedica un articolo al procuratore generale presso la corte d’appello di Milano, Mario Blandini,

utilizzando espressioni molto critiche e scrive “della cultura giuridica del procuratore generale lunatica e fantasiosa, di subalternità psicologica dello stesso nei confronti di una famiglia importante e influente e del processo che nelle mani del Blandini diveniva arte da basso intrigo”. La vicenda giudiziaria nata dalla querela del procuratore generale a Ezio Mauro e Giuseppe D’Avanzo si chiude con la sentenza depositata il 12 settembre 2007 dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, presidente Domenico Nardi e consigliere relatore Gennaro Marasca, che “rigetta il ricorso e condanna il ricorrente (Blandini, ndr) a pagare le spese del procedimento”. 
Le critiche, sostiene la Suprema corte, “forti, aspre, pungenti e anche suggestive” fanno bene alla democrazia. La critica infatti “è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia e indipendenza”. E se talvolta la critica appare connotata “da espressioni forti, aspre, pungenti ed anche suggestive” va assolta perché “spesso sono necessarie per richiamare l’attenzione della gente distratta”.
La sentenza della quinta sezione penale della Cassazione rappresenta una vittoria importante di Repubblica e sviluppa un ragionamento ineccepibile sulla difesa della più ampia libertà di critica che, fatti i dovuti mutamenti, vale per il diritto di critica in generale e in particolare per un settore centrale e sensibile come quello dei media.


L’autocritica

Una libertà di critica che i giornalisti di Repubblica non utilizzano soltanto per la cronaca giudiziaria, ma esercitano a tutto campo, anche nel settore dei media e dell’editoria. Un esempio? L’articolo che il 31 gennaio 2008 Francesco Erbani dedica a un libro cui viene riservata l’apertura del paginone della Cultura. È sufficiente il titolo per capirne il contenuto: “Quanti svarioni chiarissimo professore”, preceduto dall’occhiello “Uno studio sugli errori commessi dai docenti universitari di Salerno” e chiosato da un

sommario: “La ricerca prende in esame una quarantina fra testi e dispense. Ed ecco: Joice, Nietzche e Ficht. Ma anche un’ altro e qual’è”. Ma se James Augustine Aloysius Joyce scritto con la “i” al posto della “y” merita due colonne di fuoco in


Adriana Buffardi e Rosalba Tufano

apertura del paginone della Cultura di Repubblica, quale spazio e commento va riservato a chi titola che le cause di lavoro dei sindacalisti Fiat di Pomigliano vengono decise dal Tar, il tribunale amministrativo regionale?   
Va anche detto che forse ha ragione il lettore di Iustitia Ettore Fanelli nel vedere due passi diversi tra l’edizione nazionale di Repubblica e le pagine campane. Quando ci sono stati errori più o meno gravi persino grandi firme del giornale di Ezio Mauro hanno con umiltà ammesso l’errore e chiesto scusa ai lettori. Due esempi.
Il primo. Il 10 marzo 2008 Massimo Giannini, vice direttore di Repubblica e direttore del settimanale Affari & Finanza, firma un fondo sull’inserto economico dedicato alla battaglia in corso tra Milano e Smirne per l’aggiudicazione dell’Expo 2015. Sbaglia, e non è un errore da poco, la collocazione di Smirne: ne parla come di una città greca, in realtà è turca. Viene attaccato con un  articolo di Alessandro Gnocchi pubblicato in prima pagina dal quotidiano Libero. Giannini scrive una lettera di scuse al giornale di Feltri e al sito www.dagospia.com, che aveva ripreso lo svarione, e corregge l’errore sul numero di Affari & Finanza del 17 marzo, incassando su Libero i complimenti di Gnocchi.
Il secondo caso. Il 6 febbraio 2008, nella sua rubrica‘L’amaca’, Michele Serra scrive: “la Rupe Tarpea dalla quale gli spartani buttavano i neonati inadatti alla guerra”. A strettissimo giro, il 7 febbraio, Serra si corregge: “ieri per un refuso della mia (scadente) memoria ho attribuito la Rupe Tarpea a Sparta anziché a Roma. Me ne scuso con i lettori e con gli spartani”.
A Napoli le rettifiche e le scuse non si usano. E la cattiva abitudine non è arrivata con Giustino Fabrizio. Il 26 aprile 2003, alla guida della redazione partenopea ci sono Luigi Vicinanza e il vice Antonio Corbo, viene pubblicata un’intervista di un’intera pagina all’assessore regionale alla Sanità Rosalba Tufano. In realtà il cronista di Repubblica ha parlato con l’assessore alla Formazione professionale Adriana Buffardi. Ne viene fuori uno svarione epocale. I capi decidono di sistemare la faccenda con scuse personali, e private, ai due assessori. Dell’impensabile scambio i lettori di Repubblica Napoli non verranno informati; soltanto l’esigua pattuglia che segue Iustitia leggerà il lungo corsivo (vi invitiamo a rileggerlo) che Byte dedica alla vicenda.  Né a Vicinanza, né a Corbo passa però per la testa di citare in giudizio Iustitia, né di intraprendere altre iniziative violente. Del resto oggi, anche se ci sono errori, e magari errori marchiani, perché chiedere scusa ai lettori, dal momento che “i titolispesso vengono scritti dal tipografo”?